Il gorilla di montagna

CLASSIFICAZIONE

Il nome scientifico del Gorilla di Montagna è Gorilla beringei, ma esistono due sottospecie: Gorilla beringei beringei e Gorilla beringei graueri.

Appartiene all’Ordine dei primati e

alla Famiglia degli Ominidi.

Il gorilla di montagna è una specie in pericolo di estinzione.

SCARABOCCHIO

Il disegno qui di seguito è frutto della mia propensione allo scarabocchio e in quanto tale è riportato immeritatamente anche nella pagina dedicata all’ ARTE nel mio blog, così come tutti gli altri scarabocchi che vado producendo nel corso di deliri e stadi più o meno accentuati di spontanea (quindi non indotta da droghe o altro, perchè ho una dote naturale) alterazione di stati di coscienza.

DSCN6713

Ma ritorniamo al GORILLA DI MONTAGNA che è specie interessantissima.

DOVE VIVE

Non vive in Trentino; ci tengo a dirlo ad onor di cronaca a tutti quelli che, essendo nati sulle Alpi, pensano che solo perché un animale si chiama Gorilla “di montagna” debba per forza vivere pure lui sulle Alpi; le montagne del mondo sono tantissime e NON appartengono tutte ad un’unica catena montuosa, rendiamoci conto.

Infatti il Gorilla di montagna vive nell’Africa centrale,in una ristretta area montuosa posta a cavallo fra la Repubblica Democratica del Congo,Uganda e Ruanda, in particolare nella zona del Lago Kivu e dei Monti Virunga.

Fonte della cartina: http://www.treccani.it

CONSIDERAZIONI GENERALI

Ora, ci si potrebbe chiedere che cosa hanno in comune le Dolomiti nostrane con i Monti Virunga, ad esempio; oltre al fatto che sono montagne le une e sono montagne le altre. Cioè, non è obbligatorio, ma a una come me potrebbe venire la voglia di farsi una siffatta domanda, ecco.

E facendomi tale domanda ho scoperto, ad esempio, che Dolomiti e Monti Virunga sono entrambe state nominate dall’UNESCO patrimonio dell’umanità. Ed entrambe le catene montuose ricadono in un’area protetta. In particolare ho scoperto che il Parco dei Monti Virunga ospita circa 200 esemplari dei soli 790 Gorilla di montagna ancora esistenti.

Per chi volesse saperne di più sui Monti Virunga, invito caldamente a leggere questo bellissimo articolo, pubblicato su un sito (www.atlanteguerre.it) altrettanto bello, importante e interessante: C’era una volta e c’e’ ancora il Parco di Virunga

L’ORDINE DEI PRIMATI

Il Gorilla di montagna, s’è detto poc’anzi, appartiene all’ordine dei primati, ovvero allo stesso ordine a cui appartiene anche l’uomo. I primati sono i mammiferi che presentano il più alto livello di sviluppo delle facoltà psichiche, anche se nel caso dell’uomo quest’affermazione, a parer mio, potrebbe esser messa sovente in discussione. Tuttavia osservare i primati non umani per l’uomo può essere un’esperienza istruttiva.

L’ordine dei primati comprende Proscimmie, Scimmie e Scimmie antropomorfe; di queste ultime fa parte l’uomo. E’ un ordine diffuso sopratutto nelle zone calde della Terra, ad eccezione dell’Australia.

I primati sono mammiferi conformati per la vita arboricola, ovvero per la vita sulle piante. Questo fatto spiega perchè io mi diverto moltissimo ad arrampicarmi sugli alberi, anche se l’età avanza e le mie performance in tal senso lasciano sempre più a desiderare… ma non divaghiamo ed evitiamo di deprimerci.

La vita sulle piante vuole arti lunghi,mani e piedi con le estremità nude e pollice e alluce quasi sempre opponibili; si dice cioè che i primati sono quadrumani.

La maggior parte dei primati sono specie forestali anche se alcune si sono adattate a vivere al suolo, come il mandrillo che se ne sta a terra a guardar le altre scimmie che scorazzano da un ramo all’altro. Anche il Gorilla ed il Gorilla di montagna, vista anche la mole, hanno la tendenza a preferire la vita al suolo.

I primati pur essendo onnivori si nutrono per lo più di frutti, foglie ed erba. L’uomo, come sappiamo fa eccezione… fa spesso eccezione e non sempre in senso positivo, diciamocelo.

Il notevole volume del cranio e l’encefalo molto sviluppato, sopratutto in alcuni generi, sono indicativi del livello evolutivo raggiunto da questi Mammiferi; questo se escludiamo (…lo so, rischio di ripetermi) alcuni individui appartenenti alla specie umana che, pur avendo spesso un gran capoccione, si comportano sovente come dei microcefali decisamente poco evoluti.

LA VITA SOCIALE DEL GORILLA DI MONTAGNA

Il Gorilla vive i gruppi composti anche di 30 – 40 soggetti. Sono guidati da un maschio adulto dominante che regola tutta la vita sociale della comunità.  I suoi umori e le sue decisioni determinano il comportamento giornaliero che tutti i membri del gruppo assumono nei confronti dei consimili e dell’uomo. In buona sostanza se al gorilla maschio dominante gira male è meglio evitare di fargli visita. Così accade anche in alcune organizzazioni sociali umane.. che sò: proviamo a pensare ad alcuni capiufficio, ad esempio.

Anche i rapporti sessuali sono di tipo patriarcale poiché il “signore” fa il bello e cattivo tempo con le femmine. Ci sono anche alcune società umane che cercano di regredire a stadi evolutivi che portino al medesimo tipo di organizzazione sociale e in alcuni casi ci riescono pure. Tanto per non perdermi l’occasione di smentire chi dice che la specie umana si discosta molto da altre specie considerate meno evolute.

Il maschio dominante ha però anche una grande responsabilità; tutto ciò che riguarda la vita del gruppo si fonda sulla sua capacità di difenderlo e sulla sua capacità di affermarsi. Quando muore o diventa troppo debole per mantenere il comando, subentra qualche maschio solitario che si era isolato mantenendo però il contatto visivo con il gruppo. Il maschio che subentrerà non sarà mai un maschio di grado inferiore appartenente alla comunità.Non esistono raccomandati fra i gorilla e non sto qui a dire altro

Tuttavia, per certi aspetti, mi vien da dire che questo tipo di organizzazione ricorda un po’ il sistema gerarchico militare o politico umano, anche se esiste una notevole differenza: nel caso dei gorilla il maschio deve dimostrare quotidianamente di essere all’altezza del ruolo che il gruppo gli ha conferito; nel caso delle gerarchie militari o delle organizzazioni politiche umane, i maschi  o gli individui graduati e/o preposti a detenere il potere, spesso non sanno assolutamente dimostrare di meritarsi il grado ed il ruolo che gli è stato conferito. Eppure non possono venire sostituiti o destituiti con tanta facilità. E assolutamente non si sognerebbero mai di dimettersi per lasciare il posto a chi dimostra che saprebbe far meglio. Ma non divaghiamo oltre…

MORFOLOGIA DEL GORILLA DI MONTAGNA

Il Gorilla di montagna è il più imponente dei primati e ha una mole ancora più poderosa del gorilla (Gorilla gorilla). I maschi del gorilla pesano dai 180 ai 220 kg.  Rispetto al Gorilla, il Gorilla di montagna ha pelo più lungo e arti più corti e mostra una ancor più spiccata attitudine a vivere sul terreno.

Il mantello ha una colorazione variabile dal blu al blu-nero e bruno-grigio, mentre nei soggetti anziani assume una tonalità argentata sulla schiena. Il maschio possiede canini assai sviluppati ed è dotato di ghiandole ascellari che secernono sostanze odorifere quando l’animale è agitato. Nel film di Fantozzi, il personaggio di Franchino fu concepito come un’imitazione di tale fenomeno, presumo.

L’ALIMENTAZIONE DEL GORILLA DI MONTANGNA

Il Gorilla di montangna si nutre di foglie, erba e radici, ma gradisce anche frutti, funghi e a volte anche insetti.

LA RIPRODUZIONE DEL GORILLA DI MONTAGNA

La prolificità è piuttosto scarsa; la femmina raggiunge la maturità sessuale a circa 10 anni e nell’arco della sua vita (può arrivare a circa 40 anni), dà alla luce dai 2 ai 6 piccoli. Proprio come per l’uomo, la gestazione dura 9 mesi e le femmine sorreggono i piccoli con le braccia esattamente come fanno le donne e alcuni uomini-padri più evoluti. Questo avviene perché i piccoli non hanno sufficiente forza nelle braccia per aggrapparsi da soli al pelo della madre. Rispetto ai cuccioli umani però, i piccoli gorilla crescono a velocità doppia.

LA PULIZIA DEL CORPO

Fra i piccoli e le madri è comune il grooming, ovvero il particolare comportamento di pulizia del pelo presente in molti mammiferi. Il grooming può essere effettuato con la lingua, i denti e le unghie. Fra le scimmie è molto sviluppato il grooming sociale, attività importante che aiuta a rinforzare i legami interni al gruppo. Fra i gorilla però il groooming non avviene reciprocamente, come per le altre scimmie, ma solo in modo unilaterale. E comunque è un’attività rara fra gli adulti di gorilla, mentre le madri cercano di tenere pulito il più possibile il pelo dei piccoli.

******************************************************************************************

Per scrivere questo post ho consultato

La salamandra pezzata

A me piace! Mi è sempre piaciuto questo essere bello e colorato. Proprio mi ispira simpatia! Il perché non lo so spiegare di preciso, fatto sta che ho deciso di darle la priorità e parlarne per prima qui in questo spazio dedicato a tutti gli animali che, per un motivo o per l’altro, mi incuriosiscono e mi affascinano.

Il suo nome scientifico è Salamandra salamandra

Appartiene all’ordine degli Urodeli o Caudati

Fa parte della famiglia delle Salamandridi

La si vede presente in Europa, Asia Minore, Africa settentrionale

E’ lunga dai 18 ai 32 centimetri Il suo nome comune è Salamandra pezzata o Salamandra gialla e nera. In Italia si trova sui rilievi collinari prealpini e alpini, nei boschi di latifoglie o misti a conifere e latifoglie, solitamente fino ai 1000 metri di quota, ma è stata avvistata anche a 1800 metri. Vive sopratutto nelle boscaglie e nelle vallette umide e ombrose; durante il giorno si può osservare solo dopo la pioggia, perché altrimenti preferisce rimanere nell’umidità del terreno, fra l’humus e le radici.

E’ bella perchè ha una pelle di una sgargiante colorazione a macchie gialle distribuite in maniera irregolare su un lucido sfondo nero. La pelle è ruvida, ma non squamosa, gli occhi sono sporgenti e la coda ha sezione circolare.

E’ molto vorace e si nutre di vermi, insetti, larve, crostacei, molluschi e girini. La femmina fecondata conserva gli spermatozoi del maschio durante parte del letargo invernale, portandosi poi agli inizi di primavera nei pressi di piccoli corsi d’acqua dove depone alcune decine di larve sviluppatesi nel frattempo nel suo corpo. Questo processo si chiama ovoviviparità. Le larve presentano le zampine ben sviluppate e le branchie assai evidenti. La metamorfosi ha luogo a metà estate, quando le larve hanno raggiunto una lunghezza di 5 cm. Da questo momento la piccola salamandra adotta un’esistenza terrestre, ma dovranno passare ben 4 anni prima che raggiunga la taglia di un adulto e la maturità sessuale.

Sulle Alpi e nella zona trentina dove vivo ci sono anche la Salamandra nera ed il Tritone alpino, ma ne parlerò in due post a loro dedicati.

CREDENZE POPOLARI SULLA SALAMANDRA PEZZATA

In merito alle salamandre esistono innumerevoli leggende difuse in tutta Europa. Secondo alcune il “soffio” della salamandra ucciderebbe le vacche; ora, io posso testimoniare senza ombra di dubbi che questa non solo è una leggenda, ma è anche una palese falsità, perché ne ho le prove. Quando andavo al pascolo con le vacche e le portavo nei pressi delle zone umide per abbeverarle, specialmente nelle giornate uggiose non era raro incontrare una salamandra fra le foglie della boscaglia. Ebbene, in tanti anni di attività da pastora, non ho mai visto morire una vacca a causa del soffio di una salamandra e, a dir la verità, non ho mai visto una salamandra che soffiava in direzione di una vacca. Questo lo dico ad onor di cronaca e per amor di chiarezza, ce ne fosse bisogno.

Un’altra leggenda è quella che sostiene la velenosità della salamandra; si diceva che il solo toccarla provocasse la formazione di vesciche e piaghe e nei casi peggiori, addirittura la morte. Ebbene, anche in questo caso mi tocca confutare queste dicerie, riportando la mia personalissima esperienza; è vero che le ghiandole cutanee della salamandra secernono una sostanza irritante per le mucose della bocca di eventuali predatori, ma all’uomo questa sostanza può dare fastidio solo se, adottando un comportamento sistematicamente masochistico, dopo aver accarezzato una salamandra si porta le mani agli occhi senza essersele prima lavate. In tal caso potrebbe verificarsi una certa irritazione, ma tale eventuale comportamento masochistico da parte dell’uomo non porta certo alla morte.

Si dice che la salamandra era anche un ingrediente indispensabile per alcune pozioni terapeutiche o magiche. Il decotto fatto con le sue carni pare che lenisse gli effetti dell’asma, mentre le streghe pare la usassero con altri ingredienti animali per creare pozioni da consumare nel corso dei loro banchetti infernali.

Con le salamandre avevano medesimo destino i tritoni che, come nel Machbet di Shakespeare, venivano usati dalle streghe come ingredienti per preparare un filtro che donava la preveggenza.

Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia riferisce la credenza popolare che la salamandra avesse il potere di spegnere il fuoco, perché era della sua stessa natura e quindi capace di dominarlo. Plinio era consapevole della falsità di queste dicerie superstiziose, ma non riuscì a debellarle. Tant’è che in epoca romana, ma anche pre-romana, la salamandra pezzata era venduta sui banchetti come talismano per debellare gli incendi domestici.

Anche gli Arabi e nell’Europa medievale si incontrava la credenza della salamandra come spirito elementare del fuoco, animale di origine divina proveniente dal cielo. La sua virtù si esprimeva da un lato come energia utile e benefica e dall’altro come forza distruttrice, negativa, portatrice di malanni.

La salamandra è entrata spesso a contatto  con il mondo umano anche come simbolo di potere; Francesco I di Francia la volle disegnata nel proprio stemma nobiliare come personificazione di una forza naturale non domabile dall’uomo (il fuoco).

Nel linguaggio moderno le proprietà “ignifughe” di questo piccolo animale sono richiamate dalla denominazione dei tecnici muniti di tute d’amianto che trivellano il suolo in cerca di gas naturali; questi vengono infatti chiamati “salamandre”.

Per scrivere questo post mi sono buttata anima e corpo su: Atlante illustrato del regno animale – De Agostini – Rettili e anfibi – pagg. 178, 180,182,184,186 e 187.

Faust – un film di Alexander Sokurov

Ha vinto il Leone d’oro alla 68° mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, nel 2011.

Ispirato all’opera omonima di Johann Wolfgang von Goethe, il film riprende le vicende del dott. Faust e si ispira al personaggio mitologico del nostro tempo, presente nelle opere liriche, nella danza, nelle opere teatrali.

Il dott. Faust è un personaggio trasgressivo, che conduce una ricerca che lo porterà al limite della conoscenza umana. Credo che ciò che davvero affascina di Faust sia proprio questo aspetto del volersi spingere oltre il conoscibile.

L’ambientazione del film è medievale ed evidenzia le terribili condizioni di vita dell’epoca; fin dalle prime immagini si percepisce la condizione di estrema povertà e tutto è reso in maniera estremamamente fisica. Nelle prime sequenze del film il dott. Faust aiutato dal suo assitente Wagner, sta sezionando il corpo di un cadavere; il tutto è reso in maniera talmente cruda che pare di percepire le sensazioni tattili del dottore che immerge le mani nelle viscere del cadavere; si ha come la sensazione di percepire addirittura gli odori nauseabondi che da quel corpo emanano.

La luce è resa con poche tonalità di colore, per lo più fredde e crea un’atmosfera inquietante nel corso di tutto il film. Traspare il senso di opressione che prova Faust vivendo in un contesto che non gli permette di espandere ulteriormente la sua conoscenza; si avverte attraverso l’uso della luce il senso di chiusura e di oppressione che il personaggio vive.

A volte però la luce è resa in maniera quasi eccessiva, forse a sottolineare il passaggio dei limiti sensoriali ordinari e quotidiani ad una dimensione esperienziale diversa, sconosciuta e misteriosa; questo accade nei momenti in cui appare Margerete, ovvero l’oggetto di desiderio del protagonista.

Io che amo le fiabe e le favole, credo che questo film abbia molto in comune con questo genere di narrazione: Il Faust di A.Sokurov invita a leggere fra le righe, ad andare oltre al racconto visibile, oltre al dialogo. In un certo senso è l’invito che il romanzo stesso di Goethe fa al lettore, ovvero quello di spingersi oltre all’ordinario, oltre al conosciuto, ma Sokurov lo fa in maniera ancor più velata; questa è l’essenza di questo film e se ci pensiamo bene è l’essenza di tutti i racconti o fiabe per bambini che insegnano alla mente di vedere oltre le comuni esperienze quotidiane, al fine di ottenere un tipo di conoscenza, di saggezza più solida.

E’ un film enigmatico, dunque, che lascia spazio alla comprensione individuale, all’immaginazione di chi lo vede. La comprensione dei personaggi e dei loro obiettivi avviene attraverso un lavoro di immedesimazione che chi vede il film deve fare con uno sforzo in più, perché nulla è ben definito, nulla è dato per scontato. E questo rende il tutto ancor più affascinante, a parer mio, perchè somiglia moltissimo all’incertezza che ognuno di noi prova di fronte alla domanda: che cosa cerco? Cosa voglio?

Non vi è l’iniziale dilemma sull’esistenza di Dio che invece si trova nel romanzo e nella maggior parte delle opere su Faust. Per il dottor Faust se esiste il bene allora esiste anche il male. Se esiste Mefistofele, allora esiste Dio. Lo scopo che lo spinge alla ricerca, allo studio e alla conoscenza è l’esigenza di trovare l’essenza della vita, per arrivarvi e realizzare qualche cosa di grandioso, di eterno.

Per fare questo Faust sfida il male, il diavolo, ovvero Mefistofele e anche Goethe nel romanzo dice che Dio ha bisogno del diavolo, perché se non esistesse il diavolo, allora nessuno crederebbe in Dio.

E ciò che accade in Natura è esattamente la stessa cosa: se non ci fosse la notte, non ci sarebbe il giorno, se non ci fossero le stagioni fredde, non ci sarebbero le stagioni calde, così come se noi esseri umani non vivessimo, non potremmo morire, se non morissimo, non ci renderemmo conto della grandiosità della vita; ogni cosa definisce il suo opposto.

E ho pensato che se la conoscenza è paragonabile alla luce ed al bene, allora non potrebbe esistere senza l’ignoto e senza il male. E infatti Faust si rivolge a Mefistofele per arrivare alla conoscenza della quale è in cerca; ha bisogno del male per giungere al dunque.

Faust nel romanzo di Goethe è un uomo anziano, ma A.Sokurov lo presenta invece come un uomo di mezza età, con una certa esperienza questo sì, ma non vecchio. L’interesse per la vita viene risvegliato in lui dalla perfezione dell’innocenza pura e incontaminata di Margerete. L’uso della luce della quale si parlava prima esprime benissimo questa condizione del personaggio femminile. E’ come se tutto ciò che l’uomo fa per rendere piacevole la propria esistenza, rappresenti il tentativo di andare oltre a ciò che all’uomo è concesso di comprendere.

Ad ognuno di noi sono stati dati degli elementi di comprensione e non per tutti questi elementi sono gli stessi; molto dipende dalle esperienze che un essere umano può fare e da come queste esperienze vengono assimilate ed elaborate da noi stessi. La purezza che Faust coglie in Margerete è uno degli elementi che lo saprebbero portare oltre e di questo lui è consapevole e per questo è disposto a scendere a patti con Mefistofele pur di ottenerla.

In realtà Faust in Margerete cerca il piacere e in questa ricerca non perde di vista la ricerca prima, ovvero l’idea di immortalità.

E’ così per tutti i piaceri della vita, se ci si pensa; il tempo che abbiamo a disposizione è sempre troppo poco e di questo quasi tutti sembriamo renderci conto, tuttavia quasi tutti sprechiamo il nostro tempo con l’inutile trastullarci fra pensieri vuoti e attività altrettanto futili.

L’essenza della vita è un’altra cosa e Faust lo sa bene; è ciò che gli permetterebbe di aver vissuto senza aver sprecato il suo tempo. Lui è arrivato a questa conclusione perché ha passato il suo tempo studiando, cercando di capire e sopratutto a pensare al significato del suo esserci. Nella consapevolezza di essere un granello di polvere nell’immensità dell’Universo, Faust sente l’esigenza di darsi una definizione che sappia andare oltre e sa di avere poco tempo a disposizione per poterlo fare.

Il tempo è un tema centrale di questo film; o meglio, il tempo inteso come opportunità forse irripetibile di conoscenza che ogni singolo individuo ha, è il vero tema del film, a mio modo di vedere. Perchè dico forse? Perché l’immortalità di un’anima non è fra le nozioni che mi è dato di conoscere, ancora, non so a voi. 🙂

Potrei avere un’anima immortale e allora, in tal caso, avrei  altre oppurtunità, altro tempo. Oppure potrei avere un’anima che muore con il mio corpo; in tal senso la mia anima avrebbe a sua disposizione solo il tempo che rimane a disposizione del mio corpo.

In questo film si rende evidente quanto è impossibile per noi uomini arrivare a capire la vita e mi chiedo, che consolazione può dare una risposta artificiosa, seppur rassicurante? Personalmente non me ne dà nessuna e trovo maggior conforto nel continuare a cercare, esattamente come fa Faust fino alla fine del film.

Giovannin senza paura

Da:Fiabe italiane di Italo Calvino

C’era una volta un ragazzetto chiamato Giovannin senza paura, perché non aveva paura di niente. Girava per il mondo e capitò a una locanda a chiedere alloggio.   – Qui posto non ce n’è, – disse il padrone, – ma se non hai paura ti mando in un palazzo.

– Perché dovrei aver paura?

– Perché ci si sente, e nessuno ne è potuto uscire altro che morto. La mattina ci va la Compagnia con la bara a prendere chi ha avuto il coraggio di passarci la notte.

Figuratevi Giovannino! Si portò un lume, una bottiglia e una salsiccia, e andò. A mezzanotte mangiava seduto a tavola, quando dalla cappa del camino sentì una voce: – Butto?

E Giovannino rispose: – E butta!

Dal camino cascò giù una gamba d’uomo. Giovannino bevve un bicchier di vino.

Poi la voce disse ancora: – Butto?

E Giovannino: – E butta! – e venne giù un’altra gamba. Giovannino addentò la salsiccia.

– Butto?

– E butta! – e viene giù un braccio. Giovannino si mise a fischiettare. – Butto? – E butta! – un altro braccio.

– Butto?

– Butta! E cascò un busto che si riappiccicò alle gambe e alle braccia, e restò un uomo in piedi senza testa.

– Butto?

– Butta! Cascò la testa e saltò in cima al busto. Era un omone gigantesco, e Giovannino alzò il bicchiere e disse: – Alla salute!

L’omone disse: – Piglia il lume e vieni.

Giovannino prese il lume ma non si mosse.

– Passa avanti! – disse l’uomo.

Passa tu, – disse Giovannino.

– Tu! – disse l’uomo.

– Tu!- Disse Giovannino.

Allora l’uomo passò lui e una stanza dopo l’altra traversò il palazzo, con Giovannino dietro che faceva lume. In un sottoscala c’era una porticina.

– Apri! – disse l’uomo a Giovannino.

E Giovannino: – Apri tu!

E l’uomo aperse con una spallata. C’era una scaletta a chiocciola.

– Scendi, – disse l’uomo.

– Scendi prima tu, – disse Giovannino.

Scesero in un sotterraneo, e l’uomo indicò una lastra in terra.

– Alzala!

– Alzala tu! – disse Giovannino, e l’uomo la sollevò come fosse stata una pietruzza. Sotto c’erano tre marmitte d’oro.

– Portale su! – disse l’uomo.

– Portale su tu! – disse Giovannino.

E l’uomo se le portò su una per volta.

Quando furono di nuovo nella sala del camino, l’uomo disse: – Giovannino, l’incanto è rotto! – Gli si staccò una gamba e scalciò via, su per il camino. – Di queste marmitte una è per te, – e gli si staccò un braccio e s’arrampicò per il camino. – Un’altra è per la Compagnia che ti verrà a prendere credendoti morto, – e gli si staccò anche l’altro braccio e inseguì il primo. – La terza è per il primo povero che passa, – gli si staccò l’altra gamba e rimase seduto per terra. – Il palazzo tienitelo pure tu, – e gli si staccò il busto e rimase solo la testa posata in terra. – Perché dei padroni di questo palazzo, è perduta per sempre ormai la stirpe, – e la testa si sollevò e salì per la cappa del camino.

Appena schiarì il cielo, si sentì un canto: Miserere mei, miserere mei, ed era la Compagnia con la bara che veniva a prendere Giovannino morto. E lo vedono alla finestra che fumava la pipa.

Giovannin senza paura con quelle monete d’oro fu ricco e abitò felice nel palazzo. Finché un giorno non gli successe che, voltandosi, vide la sua ombra e se ne spaventò tanto che morì.

La magia delle fiabe sta in ciò che la mente può percepire fra una parola detta e l’altra. Giovannin senza paura è una fiaba popolare antica e verrebbe da dire subito che già nel titolo arriva dritta al nocciolo della questione: la paura dominata dal coraggio del protagonista. E non si parla di una paura qualsiasi, ma della paura peggiore, della paura dell’ignoto, ovvero della morte.

Ora, proviamo a immedesimarci in un bambino che sta ascoltando la storia dalla voce di una adulto, seduto magari di fronte ad un camino, o alla luce rassicurante di una lmpada e accoccolato al sicuro all’interno della propria casa.

Il racconto si svolge nell’arco di una notte e Giovannino si trova in un posto a lui sconosciuto e che nasconde mille incognite. La notte nasconde ciò che non si conosce, ciò che si teme perché non è reso visibile dalla luce.

Proviamo a immaginarci la voce del narratore che recita le parole della fiaba, proviamo a sentire il ritmo simile ad una filastrocca che cadenza il narrare, il botta e risposta fra Giovannino e un essere che arriva da quel camino che funge da collegamento con il contesto sicuro dell’interno di una casa e l’esterno oscuro e notturno.

Dal camino esce ciò che non si conosce, ciò che fa paura. Giovannino accoglie con coraggio quell’essere spaventoso che si presenta smembrato ed attende con calma, mangiando e bevendo, quindi facendosi più forte, che ogni pezzo di quello strano essere vada al suo posto e che si riveli nella sua interezza, per poterlo osservare per quello che realmente è e rapportarsi con lui.

Sostanzialmente Giovannino attende di conoscere tutti gli elementi prima di agire. E quando l’omone ormai visibile in tutta la sua interezza tenta di intimidirlo dandogli degli ordini, lui continua a reagire con sicurezza, rispondendogli a tono, per nulla impressionato dalla situazione. Giovannino continua a tenere la situazione sotto controllo, è sicuro di sè e non si fa intimidire.

Utilizza il lume per vederci meglio, per rischiarare quella notte che non gli permette di vedere le cose per quelle che realmente sono, per conoscere a fondo la situazione e per non commettere passi falsi. Si addentra nei luoghi che l’omone gli indica, ma facendosi precedere, quindi agisce, ma con cautela, con la dovuta prudenza.

E questo suo modo di affrontare la situazione lo porta alla ricompensa delle tre pentole d’oro. L’omone quindi non ha più motivo di essere, perché Giovannino ha fatto cadere l’incantesimo. La paura alimentava l’incantesimo. 

E così come era arrivato, pezzo dopo pezzo, l’omone svanisce attraverso il camino, venendo risucchiato da quell’ignoto non più spaventoso, perché ormai sconfitto dalla conoscenza acquisita da Giovannino. Quando la Compagnia viene a voler prendere il morto, Giovannino si affaccia senza timore alla finestra e accoglie il giorno.

Si affaccia verso l’esterno e forte delle ricchezze acquisite durante la notte, si fuma beatamente la pipa, proprio come forse fa un nonno o un papà, quindi una persona adulta, dopo aver raccontato una bella fiaba al suo nipotino o al suo bambino.

Giovannino è diventato una persona adulta perchè è stato prudente, coraggioso, abbastanza calmo e sicuro di sè da saper sconfiggere la paura di ciò che non conosceva.

La pastora – terza parte

Una volta avviata la mandria, si saliva. Le vacche dalle mi parti, una volta uscite dalla stalla, dovevano quasi sempre camminare in salita; questa era la regola insindacabile data dalla conformazione del territorio. A me questa regola non è che piacesse molto e nemmeno alle nostre vacche, notavo. Tuttavia i pascoli si trovavano “sempre un po’ più su” di dove era ubicata la stalla. Il camminare in salita alla mattina e in discesa alla sera era pane quotidiano, per me e anche per le vacche. Per arrivare ai prati, appena usciti dal paese, si dovevano attraversare il più delle volte i boschi; quella era la parte più facile del lavoro, perché le vacche in un bosco di conifere non erano come le capre, che si spostano ovunque se non spinte con insistenza. Le vacche non ci pensavano nemmeno a cambiare direzione e ad uscire dalla mulattiera, se non altro perché camminando su un terreno reso acido e privo di vegetazione dagli aghi degli abeti, gli stimoli per distrarsi dai pascoli d’erba che loro sapevano trovarsi più a monte, per una vacca affamata erano pressoché inesistenti. Il rientro poteva risultare più impegnativo, perché le vacche sazie sono più svogliate e meno propense a rientrare per farsi mettere la catena al collo, ma verso sera sentivano lo stimolo a farsi mungere e questo aiutava. Il compito di spingere la mandria, sia all’andata, sia al ritorno era mio e c’era in tale attività qualche cosa che mi piaceva poco; piuttosto che spingere la mandria, avrei preferito precederla. Tuttavia precedere la mandria era compito del più anziano in grado e nel caso specifico se ne occupava mia sorella, perché per mere questioni di età, il capo incontestabile era lei. Successivamente ebbi modo di capire che questa regola è universalmente riconosciuta in una società tradizionalista, seppure spesso è controproducente per il bene comune. Ma non divaghiamo. C’è da dire che spingere la mandria è un lavoro che ha un che di noioso; un po’ perché ti piacerebbe sempre sapere dov’è arrivata Balin lì davanti, e un po’ perché devi seguire un ritmo imposto, a volte troppo veloce e a volte decisamente troppo lento. Questo fatto che per forza di cose ero costretta ad assecondare una camminata non mia, mi portava ad annoiarmi parecchio e spesso attraversando i boschi, a differenza delle vacche, io mi distraevo. Ora, in un bosco i motivi di distrazione possono essere milioni, forse anche miliardi, perché a parte l’anatomia precisa della parte posteriore di una vacca che segue un’altra vacca, che a sua volta segue un’altra vacca, nonché le valutazioni più o meno attente dei prodotti delle attività fisiologiche che una mandria spinta in salita inevitabilmente produce, all’epoca mi pareva che non ci fosse molto altro che potesse rientrare nelle valutazioni attente del quadro poco complesso di questa parte del lavoro. Tranne la necessità di camminare per non rimanere indietro. Ecco, quest’ultima parte spesso mi sfuggiva e capitava sovente che quando la mandria giungeva al pascolo, io mi trovassi un po’ indietro, a volte parecchio indietro, spesso e forse inconsapevolmente spersa fra gli abeti e intenta in attività che a me sembravano di estremo interesse e di rilevante importanza, ma che a mia madre e soprattutto a mia sorella, non piacevano affatto perché, mi ricordo benissimo, si ostinavano a definirle più o meno come “bighellonaggio ozioso”. Crebbi con un lieve senso di colpa dovuto a queste incresciose incomprensioni, ma sopravvissi. In seguito, quando mia sorella cominciò a lavorare fuori casa, dovetti occuparmi da sola delle vacche ed il problema su chi doveva precedere la mandria non si poneva più; potevo gestirmi la cosa più o meno liberamente e di conseguenza anche i sensi di colpa svanirono. A volte, al rientro, precedevo la mandria facendo la parte di “quella che potrebbe darmi il sale”, altre volte, quando le vacche non volevano proprio saperne di lasciare il pascolo, le spingevo usando un bastone come mero strumento di minaccia. Loro un po’ ci credevano al mio bastone e un po’ no, perché mi conoscevano bene e quando non ci credevano per nulla arrivavo ad appoggiarlo sulle natiche di qualcuna, ma senza farle male; allora rinsavivano all’improvviso e la convinzione prendeva il posto dell’ ostentata incredulità mentre la marcia incerta si faceva decisamente più spedita. Detestavo chi usava il bastone con veemenza e odiavo chi lo usava con violenza su un animale attaccato alla catena. Da bambina ho assistito a scene di questo tipo e l’orrore e la rabbia ed il senso di importanza che mi procurarono queste esperienze covano ancora dentro di me, da qualche parte. Ero inerme e troppo piccola e non potevo farci niente, ma mi ripromisi che appena sarei diventata grande avrei punito chiunque si fosse comportato in quel modo con una vacca o con un animale qualsiasi! In seguito ebbi modo di mantenere la promessa, a mio modo. Per me il bastone doveva essere bello, intagliato, leggero e resistente, utile ad agevolare il cammino e quindi parecchio lungo e soprattutto era uno strumento di contorno nel lavoro, seppure conferiva una certa autorevolezza agli occhi della mandria. In seguito, nel tempo, noi come quasi tutte le altre famiglie vendemmo un po’ alla volta molte delle nostre vacche. Mio padre aveva trovato un buon lavoro in città e faceva il contadino nel tempo libero; nel periodo in cui seguivo la mandria da sola avevamo dalle dieci alle otto vacche, non di più, poi sempre meno e più avanti anche il periodo in cui si facevano pascolare nei prati si ridusse, preferendo tenerle ferme in stalla per occuparsi in prevalenza della coltivazione di campi con piccoli frutti, del taglio del fieno e dell’accumulo della scorta di foraggio per l’inverno. Il prezzo del latte che si spuntava vendendolo al consorzio non valeva la candela e tutti i contadini della mia zona, uno dopo l’altro, furono costretti a vendere il bestiame e a ripiegare su un lavoro in fabbrica fuori paese, o come manovali o altro, lasciando così la loro montagna a sè stessa, divenendo dei pendolari e in molti casi e dopo qualche anno, preferendo lasciare la Valle definitivamente per stabilirsi in città. Io ho assistito e fatto parte di questo esodo e ne ho sofferto, un po’ come tutti quelli che come me sono nati e cresciuti sulle montagne e hanno dovuto lasciarle. Ci fu chi tentò di resistere più a lungo, allevando in tempi più recenti le sue vacche Rendene contro ogni logica di guadagno e di profitto, ma a lungo andare anche gli irriducibili furono costretti ad arrendersi all’evidenza; una piccola azienda posta in zone difficili non poteva competere con le produzioni industriali dei grandi stalloni di fondovalle, specialmente se la realizzazione e la gestione di questi ultimi veniva finanziata dall’ente pubblico, mentre ai piccoli agricoltori zootecnici di montagna che non guadagnavano a sufficienza per mantenere le loro famiglie, non veniva dato un aiuto sufficiente e concreto. La fatica puntellata dalla tenacia e sopportata dai montanari pur di rimanere aggrappati ai posti dove erano nati, venne sostituita gradualmente dalla prospettiva di un’esistenza più comoda e remunerativa da condursi altrove. Fu una scelta sofferta, ma obbligata. Una vita di stenti priva di ritorno economico non aveva più motivo di essere, visto che la città offriva l’alternativa. Dilagò il senso di rinuncia da parte delle vecchie generazioni e l’impellente esigenza di una vita più sicura e comoda da parte dei figli. Credo che nello scambio si sia perso molto in termini di esperienza umana, di conoscenze, di rapporto con il territorio, ma forse la mia è l’ultima generazione che sa rendersene ancora conto, perché è stata quella che ha visto e vissuto il passaggio da uno stile di vita all’altro. Le conseguenze più nefaste sono l’abbandono delle zone un tempo abitate, la mancata manutenzione delle stesse, specie nelle aree più esposte e ripide ed i conseguenti problemi in termini di stabilità idrogeologica che si stanno verificando con sempre maggior frequenza. Tutto questo si ripercuote sulla sicurezza delle aree di fondovalle, esposte a rischi di cedimenti dei versanti, frane e piene dei torrenti e dei grandi fiumi. All’epoca nessuno chiuse la propria azienda e la propria piccola stalla a cuor leggero, nessuno, nemmeno la mia famiglia, ma è così che andò e forse non c’è molto altro da aggiungere, se non che la mia carriera di pastora fu inesorabilmente frenata dagli eventi, trasformandosi in ricordo nostalgico e ormai in una sempre più vecchia storia da raccontare.

La pastora – seconda parte

Il momento in cui le vacche venivano liberate dalle catene e venivano spinte lungo il sentiero appena uscite dalla stalla, mi creava sempre un po’ di ansia, perché c’era il rischio che quelle si mettessero a scorrazzare a destra e a manca, andando a calpestare l’erba dei prati confinanti. Erano momenti di una certa drammaticità, dati anche dall’improvviso rumore assordante prodotto dai bronzini e dai campanacci appesi al collo delle vacche, ma sembrava che di questa cosa me ne rendessi conto solo io.
I prati confinanti di proprietà altrui erano sacri; non si doveva farci entrare le vacche, assolutamente! Pena il rischio di interminabili dissidi e rimostranze, ritenute dai miei genitori più che giustificate, da parte dei vicini. E in un posto dove i rapporti con il vicinato sono vitali per il quieto vivere e spesso anche per la sopravvivenza, queste erano cose da evitarsi con la massima cura, perché l’erba calpestata è difficile da falciare, per non parlare dell’erba imbrattata di sterco.
Le parole d’ordine erano: rispetto dei confini, sempre! E tacitamente le altre parole d’ordine erano: rispetto delle convenzioni e delle tradizioni, sempre!! I principi fulcro erano quindi: rispetto, decoro e onestà. Fine.
Ora, da dove vengo io, le proprietà sono così parcellizzate che il rischio che una o più vacche sconfinassero nelle proprietà altrui durante gli spostamenti della mandria, era sempre altissimo e quando succedeva si alzavano urla e si udivano improperi irripetibili e tutti si mettevano a correre per risolvere il problema, perché si sa che le vacche non hanno la minima idea di che cosa sia una particella catastale e a tratti si comportano come le pecore; se una esce dal gruppo, è facile che anche le altre le vadano dietro, specie se la ribelle si dirige dove c’è erba fresca.
A volte si creano dei veri gruppetti di vacche dissidenti che cercano di farla in barba ai pastori mettendo in atto vere e proprie strategie e astuzie di gruppo pur di arrivare in zone succulente poste oltre confine; l’abilità del pastore sta nell’essere abbastanza convincente e risoluto da far capire alle vacche anarchiche che non c’è storia: le regole valgono per tutte!
Questi gruppetti sono costituiti solitamente da giovani manze capeggiate da una vacca che ha già partorito; a me stavano molto simpatiche le manze, perché erano quella via di mezzo fra un cucciolo e un adulto che mi faceva tenerezza, ma creavano sempre un po’ di problemi, quindi non dovevo darlo troppo a vedere. Anche fra le vacche gli adolescenti andavano frenati e controllati, in nome del quieto vivere della mandria tutta.
Un tempo tutti i sentieri erano delimitati dalle staccionate in legno. Le staccionate erano solide e fitte, costruite con dei pali di maggiociondolo infissi nel terreno e delle aste di larice lunghe diversi metri e inchiodate sui pali, incastrate l’una nell’altra in senso orizzontale. Il larice ed il maggiociondolo venivano scelti per le staccionate perché sono i legni più resistenti e duraturi. Un palo di maggiociondolo resiste per decenni, seppure infisso nel terreno, e la resina del larice protegge la cellulosa dalle intemperie. Un tempo il paesaggio delle mie montagne era costellato ovunque dalla presenza di queste recinzioni; ovunque vi fosse un confine di proprietà e una mulattiera o un sentiero vi era una staccionata.
Poi, nel tempo, si è persa la consuetudine di fare manutenzione alle staccionate; un po’ perché il numero dei capi di bestiame, a seguito dell’esodo dei contadini di montagna verso le fabbriche di fondovalle, era sempre più esiguo e un po’ perché la graduale meccanizzazione dello sfalcio dei prati richiedeva una certa libertà di movimento per i mezzi. E allora questo caratteristico elemento dei paesaggi montani venne pian, piano a scomparire. Fu uno dei primi segnali del cambiamento.
E fu così che per delimitare il passaggio delle vacche e del bestiame in genere, nei punti dove ormai le vecchie staccionate avevano ceduto, si ripiegava su del filo di ferro o su delle fettucce plastificate orribili a vedersi, sostenute da ganci in plastica altrettanto brutti, ma tuttavia funzionali; sono queste le tipiche recinzioni amovibili che vengono usate oggigiorno da tutti i pastori.
Una volta avviata la mandria c’era chi doveva precederla chiamandola e chi doveva seguirla, spingendola. Ora, può sembrare strano, ma le vacche se tu le chiami ti seguono e non è solo una questione affettiva, non funziona esattamente come per i cani; le vacche ti seguono perché tu hai il sale nella sacca, o perché fingi di averlo.
In fin dei conti, come accade spesso anche nella vita non bovina, seppure può risultare un po’ cinico dirlo, la fedeltà e l’obbedienza sono spesso dettate da una base opportunista e interessata. Le vacche non fanno eccezione. Loro ti identificano come “quella che potrebbe darmi il sale” e più le chiami e più abbassano la testa per accelerare il passo ed arrivare per prime all’obiettivo, ovvero la manciata di sale; in tal senso è anche una questione di competizione, se vogliamo.
Il richiamo delle vacche da parte del pastore che precede la mandria nel mio dialetto filo tedesco ha tutta una sua filosofia e consta di regole di sonorizzazione abbastanza precise.
La peculiarità di tale richiamo varia da famiglia di allevatori a famiglia di allevatori, ma la regola essenziale è sempre la stessa: le vocali vanno tenute a lungo e a piena voce come in un canto che, a seconda delle doti canore del pastore, può risultare più o meno stonato.
Ogni tanto, perché il richiamo risulti più convincente e meno impersonale per le vacche, si pronuncia il nome di questa o di quell’altra vacca*, in modo tale che sentendosi chiamare per nome, quelle pensino: “Oh caspita! Sta chiamando proprio me! Vuoi vedere che mi riserva un po’ di sale?!!”
Potrebbe sembrare una cosa priva di buon senso e di ogni logica razionale, eppure i risultati di attente osservazioni sul campo dimostrano senza ombra di dubbio che le vacche riconoscono il richiamo del proprio nome, e seppure non ho mezzi scientifici per comprovare le mie affermazioni, confido nella fiducia che spero mi si vorrà accordare in qualità di pastora di consolidata esperienza, seppur non più praticante.
Il richiamo delle vacche fa più o meno così: “Géééééàààààdòòòòò géééééààààààà….. Géééééééééààààààà Balin* dòòòòòòòòòòò géééééééééààààààààààààààààààààààà… Gea zoltz dòòòòòòòòòò géééééééàààààààà….”
Tradotto significa: Viiiiiiieeeeeeeeeeniiiiiiiiiiii quiiiiiiiiiiiiiiiiii vieeeeeeeeeeeeeniiiiiiiiiiii, vieeeeeeeeniiiiiii Balin, quiiiiiiii vieeeeniiiiiiiiiiiiiiiii. VIeniiiiiiiiiiiiiiiii c’è il sale, vieniiiiiiiiiiii…. e così via.
Se le vacche son pigre, come spesso si verifica quando alla sera son sazie e un po’ stanche, il richiamo va tenuto fino alla stalla; il che richiede un notevole dispendio di energie in termini di usura di corde vocali, polmoni e diaframma. Tuttavia per un pastore che ha trascorso tutto il giorno in solitaria e in silenzio fra le montagne, il richiamo della mandria, a mio parere, può risultare anche un piacevole sfogo e un collaudo delle proprie immutate capacità vocali.
Diversi sono i richiami per le capre; questi hanno un suono più secco e breve, forse un po’ per conformarsi al carattere più spigoloso, indipendente, dispettoso e recalcitrante di questi animali rispetto al carattere più bonario e relativamente mansueto delle vacche. Tranne che per le vocali finali che, anche in questo caso, si tengono spesso un po’ più a lungo, le capre si chiamano più o meno in questo modo: Lèkkkka lèkkkkka tziààààààà!!! Lèkkka lèkkka lèkkka tziààààà. Tziàààà tziàààààhhh.
Non c’è traduzione.
Le capre sono animali incredibilmente strafottenti: se hai il sale e le chiami ti seguono; se credono che tu abbia il sale e le chiami, ti seguono; se si accorgono che tu fingi di avere il sale e non ce l’hai, tu le chiami, ma loro ti ignorano. Con la vacca puoi giocare un po’ più d’astuzia, perché è di indole più fiduciosa, ma non si può tirare troppo la corda; gli animali come le persone, dopo un po’ che danno fiducia senza ottenere risultato, si ribellano o perdono interesse.
Anche per il richiamo delle capre esistono diverse varianti da pastore a pastore, ma in qualsiasi caso è fondamentale non farsi prendere dall’ilarità mentre si effettua il richiamo, perché altrimenti il gregge smette di prenderti sul serio e come pastora hai finito la carriera.
La vacca che precede la mandria è solitamente la più vecchia o comunque la più scaltra del gruppo, neanche a dirlo. Le si mette il campanaccio più buono, ovvero quello che si fa sentire a maggiore distanza. Come capo mandria abbiamo avuto per lungo tempo una vacca di razza Rendena, di quelle tutte nere, di taglia medio piccola, tenaci, rustiche, cocciute e ottime produttrici di latte e vitelli sani; la nostra rendena aveva le corna ritorte in avanti e si chiamava Balin, perché ricordava un po’ la forma sferica di un pallettone da doppietta e fu la capostipite di diverse generazioni successive di rendene.
Balin era la più vecchia della mandria ed era una vacca furbissima. Aveva una memoria che nemmeno gli elefanti; lei si ricordava tutti i sentieri e tutti i percorsi più comodi per arrivare ai pascoli. Le altre vacche nemmeno si mettevano a discutere su chi di loro doveva guidare la mandria e tutte sapevano che quando Balin si muoveva, loro dovevano muoversi e seguirla, punto.
A parer mio, molti manager che gestiscono gli interessi ed i beni comuni di noi poveri mortali avrebbero molto da imparare da una vacca come Balin; lei era una leader indiscussa perché nel concreto sapeva portare le altre dove la situazione vitale era ottimale, sia dal punto di vista del pascolo sicuro, sia dal punto di vista dell’abbondanza e della qualità del foraggio nei diversi periodi dell’anno.
Se non ci fossero stati tutti quei limiti dati dai confini di proprietà imposti dalla logica umana, a Balin si sarebbe potuto benissimo affidare tutta la mandria alla mattina, stando certi che lei alla sera l’avrebbe riportata alla stalla in orario per la mungitura e che tutte le vacche sarebbero rientrate sazie, riposate e pasciute.
Purtroppo, nonostante le sue indiscutibili doti di leader incontestata, Balin non si faceva scrupolo a sconfinare nei prati altrui, specie se quelli dovevano ancora esser falciati e tantomeno si poneva il problema degli orti o dei campi coltivati a cavoli che, anzi, per lei erano il vero obiettivo inconfessabile e sempre presente nelle sue strategie di movimento quando ci si trovava alle quote più basse e vicino ai centri abitati.
Quindi la leader andava tenuta d’occhio; questo faceva parte del mio lavoro ed è un po’ quello che noi tutti in qualità di cittadini dovremmo continuare a fare anche in contesti diversi da quello zootecnico.

La pastora – Prima parte

Si dice “pastora”? Si può dire? Non lo so, comunque se anche non si può, io lo dico lo stesso, perché io sono stata una pastora, non un pastore. Avevo otto anni, più o meno. Da aprile a settembre inoltrato ci si alzava presto, troppo presto per i miei gusti. Tuttavia, una volta superato il dramma della levataccia e messo il naso fuori casa, la cosa non mi dispiaceva poi tanto. L’aria del mattino era fresca, quasi fredda e dopo il primo impatto non proprio piacevole dove si potevano osservare benissimo i peli sulle braccia nude che si drizzavano all’improvviso, la sensazione diventava quasi gradevole specie una volta che si cominciava a camminare. Nei prati al mattino c’erano i merli e le cince e altri uccelli e quando io correvo nell’erba bagnata, loro si alzavano in volo, scostandosi appena un po’ e mi davano il buongiorno. Anche le cavallette saltavano a destra e a sinistra al mio passaggio; quelle grandi e verde brillante con le ali lunghe e le zampe posteriori potenti, e quelle più piccole e colorate con le zampette e le ali meno possenti. Era divertente, davvero divertente. Se pioveva fin dal mattino, allora non si andava, si rimaneva a casa, quasi sempre. Nei mesi caldi, la mattina si andava a prendere il pane nel piccolo negozio del paese e ci si comprava un po’ di viveri per la giornata da mettere nello zaino, prima di partire con la mandria delle vacche. Il pane veniva portato con un furgone bianco dal proprietario di un panificio che si trovava nel fondovalle, nel paese di Canezza, a nemmeno venti chilometri di distanza; era un pane buonissimo ed aveva un profumo che una poi non se lo scorda più e va a finire che tutto il pane che mangerà in seguito lo paragonerà con quello, che però sarà inarrivabile per profumo, gusto, croccantezza e sapore. Le persone che si incontravano nel negozietto del paese erano sempre le stesse e avevo la sensazione che sarebbero rimaste le stesse per tutta la vita; sempre con quelle facce e sempre con il loro particolare modo di salutare, di muoversi, di esserci. Non sapevo ancora che il tempo avrebbe cambiato le cose e che soprattutto avrebbe cambiato quelle persone; non potevo ancora rendermene conto. Adesso, quando rivedo queste stesse persone, quelle poche volte che ritorno in paese, mi pervade un senso di affetto sincero nei loro confronti, un senso di rimpianto per il tempo perduto, per il tempo in cui non le ho viste cambiare, invecchiare, diventare quello che sono adesso. Tornata a casa dopo la spesa facevo colazione con tazzone di latte e caffè, uova sbattute con lo zucchero e chilate di pane fresco; un inno al carboidrato, all’esubero di calorie e alla proteina animale! Poi mia sorella preparava lo zaino con il tè, il pane, le solite scatolette di tonno con i fagioli ed i soliti due yogurt alla banana e subito dopo si andava insieme in stalla per liberare le vacche.