Memorie – Sui bronzini e sui campanacci

Dormivo in una stanza rivestita di vecchie assi che profumava di fieno e una piccola finestra guardava sulla Valle. La sera le vacche ruminavano nella stalla al piano di sotto e le sentivo respirare; avvertivo il rumore delle mandibole che si muovevano e che schiacciavano l’erba fra i grandi molari piatti. Ogni sera il suono lento e monotono dei batacchi sul metallo dei campanacci e dei bronzini, dava il ritmo ai riti che preludevano al sonno. Mi mettevo a letto e ascoltavo, fissando le travi del vecchio soffitto. Erano suoni appena accennati che avevano una loro gentilezza. Poi, nel dormiveglia, affiorava lontano nella mente il concerto di tutti i bronzini e campanacci della mandria, proprio come lo sentivo quando le vacche affamate salivano il versante il mattino, e correvano un po’, ma quegli stessi suoni lì nel buio della sera, mi raggiungevano appena, come se fossero portati da lontano con una debole folata di vento. Non ascoltavo con le orecchie, perché era una musica che avevo dentro; un sottofondo costante che mi accompagnava fino a quando il sonno e il silenzio della sera spegnevano i pensieri.

Non era una vera e propria malga, ma più una tipica baita in sassi e legno, quella dove passavo in solitaria tutte le estati, da giugno a settembre; al piano terra la vecchia cucina con il focolare centrale era stata sacrificata per ampliare la stalla, e il fienile al piano di sopra era stato trasformato in un luogo confortevole, seppur piccolo, dove poter dormire e prepararsi un pasto caldo. Rimanevo settimane lassù da sola, senza vedere nessuno, tranne qualche fungaiolo della domenica, che osservavo da lontano, nascondendomi un po’ per timidezza, un po’ perché non avevo voglia di parlare. Per non perdere l’abitudine, però, parlavo con le mie vacche. Loro mi rispondevano a modo loro e ci capivamo benissimo. Ognuna delle mie vacche aveva il suo particolare modo di stare al mondo e da quella più tenace e testarda, a quella più mite e dolce, mi legava a loro un sentimento fatto di rispetto e ammirazione; erano magnifiche le mie vacche!

Balin era una vacca di razza Rendena; la capo mandria. Era rotonda e di taglia piccola. Aveva le corna corte e ricurve, spezzate sulle punte dalle varie lotte con le altre vacche; un ciuffetto biondo rossiccio sulla fronte sormontava un muso scuro, largo e accorciato che le conferiva un po’ l’aria di vacca scaltra che sa il fatto suo. Conosceva tutti i sentieri e le scorciatoie per arrivare ai pascoli, sapeva dove cresceva l’erba migliore e quanto tempo ci voleva per arrivarci. Stava in capo al gruppo negli spostamenti e la mandria la seguiva con cieca fiducia. Aveva il campanaccio più grande, più sonoro e potente, quello che risaltava fra gli altri e si riusciva a sentire a notevole distanza, anche quando la mandria si allontanava troppo.

Hilla invece era una bruna alpina; la comprò mio padre da un allevatore dell’Alto Adige. Le Brune erano preferite da alcuni allevatori della zona, fra i quali anche mio padre, perché facevano più latte, ma molti altri contadini del posto preferivano le vacche di razza Rendena, perché era quella la razza tradizionale autoctona. La sintesi di quest’opposizione all’introduzione delle Brune Alpine in Valle, la espresse un anziano allevatore, il quale si spinse a dichiarare pubblicamente e con forza che: “…le Brune saranno anche buone vacche, ma son svizzere e rimangono delle extracomunitarie!”.

Hilla era dunque una delle tante extracomunitarie altoatesine della nostra mandria e di certo una vacca particolare. Aveva un buon carattere, come la maggior parte delle brune; aveva anche delle lunghissime e grosse corna ricurve all’indietro verso le scapole, che incutevano un po’ di timore. Nessuna delle nostre vacche veniva privata delle corna! Facevano parte della bellezza delle bestie, le corna! Una vacca senza corna è un po’ come una persona alla quale vengono tagliate le orecchie… una cosa che non si può vedere! Oggi alle vacche bruciano le corna quando sono piccole, perché nelle stabulazoni fisse dove vengono rinchiuse come macchine da produzione intensiva, le vacche con le corna potrebbero ferirsi. Una vacca senza corna è meno aggressiva, ma anche molto più triste, a mio parere. Quando Hilla alzava la testa per muggire, le punte delle sue corna arrivavano quasi a toccarle la schiena, mentre lei emetteva un suono stranissimo, dalla tonalità alta e acuta; una specie di fischio sgraziato inframmezzato da un muggito rauco e acuto. Una rarità in fatto di timbro vocale per una vacca, diciamo. Ottima produttrice di latte, Hilla aveva, però una mammella posteriore ricurva verso l’esterno, più corta delle altre, tozza ed estremamente difficile da mungere; probabilmente il frutto di un’incidente di percorso, o di una lotta con qualche altra vacca, chissà… Questa sua particolarità fisica comportava un tempo supplementare da dedicare alla mungitura. Mentre mi ci dedicavo, le cantavo delle canzoni. Secondo la mia visione delle cose, le canzoni un po’ jazz e un po’ pop-rock che improvvisavo per lei, dovevano servire a rendere Hilla collaborativa e fare in modo che rilasciasse più velocemente il latte; tuttavia che la strategia canora servisse nel concreto allo scopo, onestamente non ho mai potuto provarlo.

Fra le giovani c’era Dugo, una delle figlie di Balin; anche lei una Rendena dal manto scuro, più piccola della media. Aveva una testa rotonda e anche in età adulta mantenne il muso accorciato tipico dei cuccioli. Solitamente le manze assumono un carattere meno scapestrato dopo aver partorito il primo vitello, ma questo non valeva per Dugo, che rimase adolescente fino alla fine della sua carriera di vacca. Aveva ereditato delle doti da leader dalla madre, ma le sfruttava in modo riprovevole fomentando rivolte sovversive fra le compagne; quando la mandria si trovava ormai a due ore di cammino dalla stalla, parecchio in alto e a ridosso dei pascoli in quota, Dugo faceva dietro front con noncuranza e prima che io me ne rendessi conto, si dirigeva baldanzosa al trotto verso valle, tirandosi dietro un gruppetto ribelle. Il tutto degenerava in inseguimenti disperati e a scavezzacollo lungo sentieri e boschi in pendenza. In un’occasione il gruppetto capitanato dall’anarchica, non disdegnò di frequentare orti e campi dove le infingarde, non credendo alla fortuna che era loro capitata, fecero man bassa di cavoli, insalata e ortaggi vari nelle proprietà dei paesani, che, neanche a dirlo, furibondi si diressero verso casa mia, per denunciare il delitto compiuto a mia madre. Mia madre, ovviamente, fece bene il suo lavoro di giudice e mi condannò a una punizione corporale che ricordo ancora benissimo. Quell’anno, ricordo di esser stata più che felice di non dover rientrare in famiglia fino a settembre. Io di mio, arrivai sul campo a strage ormai compiuta; il danno fu esoso e irrecuperabile e i rapporti con i proprietari dei fondi invasi dall’orda barbara, irrimediabilmente compromessi.

Quando Dugo decideva che poteva starsene tranquilla, le mie giornate le passavo osservando le cose della natura; oppure scrivevo con una penna biro dei brevi versi sulle cortecce delle betulle e poi, a distanza di tempo, ritornavo per controllare se la pioggia le aveva cancellate. La pioggia fu sempre clemente e cancellò pietosa e con metodo le mie dissertazioni poetiche da bambina quasi adolescente; quindi mi dedicavo a occupazioni più proficue ripulendo le sorgenti dalle erbacce, disponendo degli abbeveratoi lungo i ruscelli, o creando delle pozze con dei massi nelle zone paludose, in modo che gli spostamenti della mandria per la ricerca dell’acqua fossero ridotti al minimo.

Durante le ore più calde le vacche si sdraiavano paciose sull’erba e prendevano a ruminare; io le osservavo da una zona sopraelevata sedendomi sotto un albero. Erano quelli i momenti migliori; i campanacci quasi fermi, il ronzio degli insetti nell’aria, l’odore della terra e dell’erba fresca calpestata dagli zoccoli, e la consapevolezza che il tempo poteva anche fermarsi per lunghe e meravigliose ore di quiete.

Quando il sole si abbassava sulla Valle, si riprendeva la via del ritorno. Le radunavo e le avviavo lungo il sentiero e loro si mettevano in colonna; Balin davanti, seguita da Dugo e alcune delle sue compagne sovversive; dietro le brune più lente, come Zerva, che spesso si fermavano a spiluccare l’erba attorno ai sassi lungo il sentiero.

Zerva era anche lei un’extracomunitaria altoatesina ed era fra le vacche più maestose della mandria; molto alta, perfettamente proporzionata e con magnifiche corna lunghe e simmetriche. Questa vacca aveva uno sguardo dolce ma fiero e un’ indole estremamente docile; tuttavia la sua caratteristica principale agli occhi dei miei genitori, era che produceva più latte di tutte le altre. Venerata da mia madre per questo motivo e fonte di compiacimento per mio padre che l’aveva scelta fra molte extracomunitarie, Zerva fece storia e fu sempre indicata come esempio a tutte le vacche della mandria. Era in sostanza l’esatto opposto di Dugo, che però non se ne fece mai un cruccio, a quanto ne so io.

Producendo tanto latte, Zerva mangiava in continuazione, anche durante il rientro, ed io per accelerare un po’ il passo mi portavo davanti alla mandria e la chiamavo. Attiravo le vacche con il sale grosso, mentre intonavo una specie di litania che, a parer mio e modestamente, era molto meno gradevole delle canzoni pop-rock che cantavo per Hilla durante la mungitura. Tuttavia la tradizione voleva così ed io mi limitavo a ripetere il richiamo che fin da piccolissima avevo sentito usare dai pastori della mia famiglia.

Ora, il sale grosso per una vacca è come la Nutella per noi umani, con la differenza che a noi la Nutella non fa tanto bene, mentre il sale grosso per le vacche è fonte di minerali e ne vanno ghiotte. Per questo motivo, quando una vacca ha il sentore che il pastore ha in mano un po’ di sale grosso, pare che s’innamori di lui di colpo e gli corre incontro finché non raggiunge l’obiettivo, ovvero il pugno di sale.

Zerva non faceva eccezione ma Balin, neanche a dirlo, arrivava sempre per prima e allungava il collo aprendo la grande bocca, mentre io v’infilavo tutta la mano e vi lasciavo cadere il sale, pulendomi poi il palmo sulla lingua ruvida e sui grandi denti piatti. Balin masticava beata guardandomi con enormi occhi scuri pieni di gratitudine; intanto arrivava anche Zerva e trafelata, si prendeva la sua dose di sale. Durante quei rientri mi godevo il miracolo infinito dei tramonti.

Avvenne poi che verso la fine degli anni novanta del secolo scorso, la mia famiglia e molte altre della Valle, scegliessero un altro tipo di attività lavorativa, perché la zootecnia aveva smesso di essere redditizia e implicava sacrifici che non erano ripagati equamente.

In breve tempo tutte le mie vacche furono macellate o vendute; pascoli e baite di montagna furono abbandonati ed io non ho più sentito ripetersi nell’animo e nel cuore, quelle sensazioni di leggerezza e soddisfazione che provavo quando stavo lassù. Rimane il ricordo per una parte di esistenza che mi ha temprato e cresciuta, colmando di bellezza la mia infanzia. Ancora adesso la sera, nel silenzio della mia stanza, ogni tanto da dentro avverto il risuonare dei bronzini e dei campanacci; mi pare di riconoscerli uno a uno e un sorriso triste e colmo di gratitudine mi sale dal cuore.

Le foto di questo articolo sono mie 🙂

19 pensieri su “Memorie – Sui bronzini e sui campanacci

    1. Mi hai messo malinconia un po’ perchè nei tuoi panni, è un mondo che non tornerà mai più per te, che proprio perchè ci sei nata e formata è troncare delle radici senza più le quali uno è un esule, poi sento che questi mondi che scompaiono vengono sostituiti da altri troppo estranei, infine il destino odierno di una povera vacca, vera è propria schiavitù… vedi in Germania, giusto un esempio, ce n’è abbastanza perchè la nostra tratta degli animali sia criminali. Cerco di sintetizzare un discorso altrimenti lungo.
      Chiudo: da tempo non mangio più carne.

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    2. C’è sicuramente un bel po’ di malinconia nel mio ricordare quei tempi, Guido, ma penso sia comune a molti quando si tratta di ricordi d’infanzia. Ed è vero; il mondo era più semplice, più vivibile per molti aspetti e sicuramente c’era un senso di appartenenza alla natura che richiamava inevitabilmente rispetto per tutto ciò che in un modo o nell’altro, si sapeva che concedeva risorse per la sopravvivenza. In quest’epoca di iper e super mercati, il filo diretto con le cose della Natura si è spezzato. Questa è certamente una delle cose più preziose che l’umanità dell’era della tecnica si è persa per strada; mi vien da dire che indietro non si può tornare, purtroppo o per fortuna, ma guardando avanti occorrerebbe tenere conto di ciò che di buono ci siamo persi in nome della “vita più comoda e moderna”… e magari in futuro fare qualche passo in una direzione per una vita più a misura d’uomo, se ancora lo sappiamo fare.

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  1. Che meraviglia! E’ uno scritto che dovrebbe essere letto nelle scuola perché dentro c’è la vera musica della vita: l’amore infinito per la bellezza della natura.
    E questa bellezza continui a non farcela mai dimenticare con questi tuoi scritti meravigliosi!
    Ho letto questo tuo splendido mosaico di parole vitali, ascoltando la musica di Mahler sinfonia n5 anche lui grande amante della natura e dei suoi misteri.
    Un caro saluto e un augurio di un felice fine settimana
    Adriana

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  2. Mi capita ora per caso di ripassare da questo tuo post, ne ho riletto dei pezzi qua e là e devo dire che è scritto proprio bene, bello, coinvolgente, c’è tecnica e cuore, unione non facile.
    Peraltro, mi hai fatto tornare agli anni lontani di Pinè, non una ma tutta una serie di estati, le passeggiate di ore, le mete ambite (il lago di Erdemolo)….

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