Le erbe selvatiche mi hanno salvato la vita

Non sto esagerando; a me le erbe selvatiche hanno salvato la vita, perché funziona così, a volte: tu ti appassioni a qualcosa proprio quando stai per toccare il fondo; poi quella passione ti permette di darti una piccola spinta e piano, piano ti vedi risalire, per riprendere lentamente in mano le cose essenziali che negli anni avevi disimparato a focalizzare; sono le stesse cose, gli stessi dettagli spesso imperscrutabili che alla fin, fine fanno davvero la differenza. E ti salvi, per ricominciare a vivere.

Penso che molta gente oggi si lascia morire perché non ha più passioni, o non le ha mai avute, o non le ha mai conosciute perché era distratta da altro. Ebbene, le erbe selvatiche possono salvare la vita a qualcuno e io ne ho le prove; e non sono efficaci in questo solo come una passione che fa rinsavire un’animo spento, ma anche come un concreto aiuto per la salute del corpo, oltre che dello spirito. Le erbe, le piante in generale sono un mistero, un mondo magico che mi ha sempre lasciata senza fiato, perché si rivela ogni volta strabiliante e incredibile!

Mi cadde una foglia d’acero in mano tanto tempo fa; ero un’adolescente spaventata e incerta. Mi trovavo in un prato a lavorare il fieno. Ero concentrata sul lavoro, immersa nei miei dubbi, nelle mie paure. La vidi scendere a una decina di centimetri dai miei occhi e l’afferrai per il picciolo con due dita; era strano, perché avevo le mani occupate dagli attrezzi da lavoro, eppure riuscii ad afferrarla. Un gesto istintivo. Accadde così, come in una scena a rallentatore, come se fosse stato un gesto scontato e invece la precisione e la sincronicità con le quali avvenne il tutto, mi resi conto che furono qualcosa di assolutamente improbabile. No non era scontato che si potesse verificare una cosa simile, mi dissi. Eppure avvenne così. Osservai quella foglia a lungo, guardai in alto e mi chiesi da dove venisse, visto che non mi trovavo ai piedi di un acero; ero nel bel mezzo di un grande prato.

Era verde, fresca, con il picciolo rossiccio. Perfetta. Combaciava fino al millimetro con il palmo della mia mano sinistra. Era estate, non avrebbero dovuto cadere le foglie fresche in quella stagione e non c’era vento. Mi chiesi il perché accadde. Io mi chiedo sempre il perché; sempre. Ma non capii, non ero pronta per capire, ancora. Ma la cosa mi emozionò e non mi dimenticai mai più di quella foglia. Non la conservai, perché non sapevo dove metterla e dovevo lavorare; mia madre non era molto felice dei miei momenti di “imbambolamento” come li chiamavano in famiglia, soprattutto se c’era da lavorare.

In seguito decisi di dare un significato a quella foglia; decisi che significava che io dovevo fare un lavoro che avesse a che fare con le piante, con i boschi. Decisi che avrei fatto un lavoro nei boschi, e fu così per venti lunghi anni, ma questa è un’altra storia.

Oggi ho smesso di fare quel lavoro, perché mi stava spegnendo e non ero più una persona libera. Oggi invece frequento i boschi quotidianamente da persona libera e mi viene il dubbio che quella foglia volesse dirmi solo questo; “non allontanarti dai boschi”. Non era necessario lavorarci; bastava frequentarli come faccio adesso e mi sarei sentita felice. Infatti se c’è un luogo dove sto sempre bene è proprio nei boschi, o in cima a una montagna. Sempre, anche nei momenti peggiori, io lì riesco a stare bene. L’ho scoperto dopo anni, che quella foglia voleva dirmi solo questo. A volte le cose più ovvie e semplici sono le ultime che vediamo. Le erbe selvatiche ci insegnano questo; a vedere esattamente quello di cui abbiamo bisogno e di volta, in volta capire che strade prendere. E’ così che ci salvano la vita.

Un mese fa ero sdraiata in un prato dove crescevano i tarassachi e le orchidee selvatiche e con la coda dell’occhio osservavo un cardo mariano rimasto in piedi, secco e sgraziato, reduce da un inverno che non lo aveva prostrato a terra. Il cardo mariano, se non lo sapete, è una di quelle piante che davvero può salvarci la vita. E questa storia, ve la racconto sicuramente, ma un’altra volta.

Il cuculo ha deposto l’uovo… e mi chiedo perché nessuno degli altri uccelli si lamenta

Il titolo del famoso romanzo di Ken Kesey, nonché dell’omonimo film con Jack Nicholson “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, è sbagliato. Il cuculo non ha mai fatto il nido. E di conseguenza nessuno può essere volato sul nido del cuculo. Che Kensey lo abbia fatto apposta? Non lo so.

Ma sta di fatto che accadono queste cose in natura; accade che un uccello deponga il suo uovo in un nido di altri uccelli. E così non ha nemmeno fatto la fatica di costruirsi un nido, ma soprattutto non farà la fatica di crescere la prole. Il cuculo depone un solo uovo, di solito ben più grosso di quelli che già stanno nel nido. Il cuculo qui da me è sempre ben presente. Lo sento cantare e fare i suoi versi un po’ ridicoli nelle fasi primaverili di corteggiamento. Lo sento quando è in esplorazione per decidere quale sarà la casa del suo uovo abusivo. In primavera qui mi sveglio fra il canto delle cince, dei codirossi e del cuculo; ci sono anche le ghiandaie e il picchio verde. Quest’ultimo si fa sentire spesso con la sua risata sguaiata. Meno melodiosa del canto del cuculo, ma a me piace. Mi sta un sacco simpatico il picchio verde, a differenza del cuculo, che mi piace, sì, ma con delle riserve, ecco. E’ che volenti o nolenti siamo tutti pieni di preconcetti, noi umani. A noi piace il picchio verde, perché è un gran lavoratore, e perché non parasitizza i nidi altrui deponendoci uova abusive.

Secondo il metro di valutazione umano, specie alla quale mio malgrado appartengo (lo sottolineo, perché sia mai che me lo dimentico), tutti questi esseri sarebbero definiti “brava gente”…tranne il cuculo. Perché a nostro modo di vedere, il cuculo è un parassita, parliamoci chiaro! Uno di passaggio che si approfitta del buon cuore e dell’ingenuità delle altre specie, deponendo le sue uova nei loro nidi e lasciando che loro provvedano ad alimentare suo figlio, finché questo non sfratterà i fratelli più piccoli e deboli, buttandoli fuori dal nido, per approvvigionarsi di tutto il cibo che i genitori ignari, continuano a portargli con un lavoro di via vai integerrimo e senza sosta. Un po’ come accade per quelli che abbandonano i figli che poi vengono presi in carico dall’assistenza sociale, con la differenza che qui le famiglie d’accoglienza sono sempre molto efficienti e premurose e portano il figlio abbandonato sempre e comunque alla maggiore età e senza fargli mancare nulla. Una cosa così, ma molto più metodica, studiata e ben congeniata, la tattica di riproduzione del cuculo. Il cuculo è un professionista dell’abbandono della prole.

In natura c’è sempre una spiegazione a tutto. Niente accade per caso. Io mi sono chiesta per anni quale fosse la spiegazione per un comportamento di questo tipo e no, non sono ancora riuscita a capire, non sono ancora riuscita a darmela, una spiegazione plausibile. Voglio dire, un uccello come il cuculo non avrebbe problemi di sopravvivenza se anche adottasse i metodi riproduttivi che adottano tutti gli altri uccelli, facendosi un nido e deponendovi le sue uova… eppure, niente: lui fa sta cosa ignobile. E sta cosa comporta la morte di altri uccelli, perché i fratellastri non hanno scampo; vengono inevitabilmente buttati fuori dal nido. Ed è terribile sto fatto che i genitori non ci arrivino, non capiscano e continuino a nutrire un figlio parassita, che non è roba loro.

Insomma, gente; a me sto fatto mi rode. Ed è per questo che non so capirne il senso, perché non so pensarci a mente lucida. Non so vedere la cosa libera da preconcetti. Per me, da qualsiasi lato guardo la situazione, mi pare una roba che non ha scusanti; una cosa inconcepibile, ecco!! Eppure, se la natura ha deciso che sta cosa deve accadere così, un motivo lo avrà avuto, no? E allora mi capita di pensare alla Morte; proprio così. Quante volte di fronte alla Morte abbiamo provato quel senso di impotenza e di smarrimento, dovuto spesso proprio al sentore che la Morte è ingiusta e inclemente? Ecco, più o meno, ci si potrebbe fare su un discorso analogo. Il punto è che in natura accadono cose che noi umani non ci sappiamo spiegare, perché siamo ancora troppo piccoli. Non ci arriviamo perché non ne sappiamo abbastanza della vita, per capire anche la Morte. Se non sappiamo capire le ragioni del cuculo, figuriamoci se sappiamo capire le ragione di madama Morte, mi viene da dire.

Io sono sicura che il giorno che arrivo a capire perché il cuculo si riproduce in questo modo sciagurato, capirò qualcosa di molto importante della vita su questa Terra; e magari sarà il giorno in cui una Signora avanti con l’età e con i capelli candidi raccolti in una crocchia voluminosa, il viso pallido con un sottile naso dritto e gli occhi grigi, e con addosso un bell’abito vittoriano di raso e pizzo nero, verrà a prendermi per portarmi sottobraccio in uno splendido giardino all’inglese. Ci saranno ruscelli d’acqua dolce e molte rose e alberi e cespugli di biancospino fra i quali cinguettano i codirossi, le cinice, i merli ed i passeri che ci avranno già fatto il nido; ci sarà pure il cuculo, che svolazza di qua e di là un po’ inquieto, muovendosi veloce fra i rami dei tigli e delle querce secolari, perché ha l’impellenza di deporre un uovo in qualche nido altrui. E con Lei, con la Signora sottobraccio passeggerò lentamente e sarà la prima volta forse che saprò sorridergli, al cuculo… perché avrò capito finalmente perché lo fa e che senso ha.

Ma non so se potrò dirvi come va a finire.

Boschi – parte seconda –

Le parole raramente sono degne delle immagini della Natura; forse a volte ci può riuscire la Poesia a rendere merito alla bellezza, o alle cose dell’animo che vengono smosse da certi luoghi, da certi dettagli. Per me che non so poetare, ad esempio, non esistono parole utili per la descrizione di un verde, o di una luce, o di una sensazione provata in un bosco, ma occorre provare a cercarle comunque queste parole, perché cercare le parole adatte è un po’ come cercare di entrare in noi stessi.

Perché vi è differenza fra il vedere e il guardare e vi è differenza fra il sentire e l’ascoltare. Sono parole, ma non sono “solo” parole. Credo fermamente che soprattutto fra gli adulti, bisognerebbe educare se stessi a guardare ed ascoltare, e lasciare il vedere e il sentire ai margini delle nostre percezioni, per dirne una.

Dove sta la differenza? Beh, questo lo si può chiedere agli alberi, ai boschi, alle foglie, al silenzio o al ronzio degli insetti, all’odore della terra e dei muschi… la differenza sta sempre nei dettagli, ovviamente. Ma per percepire i dettagli occorre guardare bene, e ascoltare in un modo più attento, profondo. Diciamo che se per vedere bastano gli occhi, se per sentire bastano le orecchie… beh, per guardare ed ascoltare ci vuole tutto il nostro essere. E per usare davvero tutto il nostro essere, occorre fare esperienza di noi stessi in un modo molto più profondo e impegnativo di come siamo abituati a fare nelle nostre deliranti vite soverchiate dal quotidiano delirante.

I bambini sono maestri nel porsi in ascolto e nel porsi in contemplazione… i bambini lo sanno fare, e bene! Basterebbe prendere esempio, basterebbe smettere di insegnare loro qual è il modo più razionale di “leggere” le cose del mondo… basterebbe osservarli per qualche minuto nello stesso modo in cui loro osservano il tutto. Ci vuole grande attenzione, concentrazione, per osservare il mondo con gli occhi di un bambino. Lo sapevamo fare anche noi, ma poi ci hanno insegnato a dimenticarcene. E’ un gran peccato dimenticare per strada queste immense capacità. Per riuscire a guardare e ascoltare con gli occhi di un bambino, bisogna essere in grado di farsi assorbire da una visione, da una musica, da un silenzio; in poche parole occorre sapersi gustare il mondo come solo i più piccoli sanno fare. Ma oramai per noi adulti queste sono capacità atrofizzate e rese mute, soffocate fra le spire del ragionamento razionale.

Vi è forse un antidoto a questa menomazione data dall’educazione fin troppo pragmatica, se interessa: ho scoperto che occorre spegnere il televisore e il cellulare, innanzitutto. E’ una regola imprescindibile. E poi occorre andare dove si può cominciare a camminare nei boschi. Poi si entra fra gli alberi, lasciando che il percorso sia casuale, che il bosco ci inghiotta e ci attiri sempre più nel profondo; perdendosi nel suo labirinto di tronchi, rami, foglie e stupendosi ad ogni passo, ad ogni nuova pianta, ad ogni scricchiolio di rami e ad ogni nuovo gioco di luce fra le foglie. I boschi, i fiori, le piante, gli animali selvatici possono salvarci dalla rigidità dei sensi; possono scioglierci la durezza del cuore e possono insegnarci a sorridere di nuovo, a respirare a lunghe sorsate di freschezza, fino a far arrivare un largo sorriso giù nel profondo dell’anima.

Occorre provare sentieri mai percorsi, vie nuove ed essere curiosi e attenti, proprio come sanno essere i bambini; stupirsi della bellezza, usare gli occhi per guardare, usare il naso per annusare odori e sensazioni nuove, usare il tatto ad occhi chiusi per accarezzate i muschi, i tronchi degli alberi e l’erba; rimanere magari immobili nel bel mezzo di una radura, con gli occhi chiusi, immobili, ad ascoltare; sentire il battito del proprio cuore e rendersi conto di averne ancora uno; può sembrare ridicolo per un adulto, ma sapere di avere un cuore, esserne pienamente consapevoli, non è per nulla scontato.

Dell’insondabile e incerto ponderare fra le nebbie

Oggi ho avuto il sentore che dalle nebbie sulle creste delle montagne e fra i muschi dei sottoboschi nelle giornate di pioggia, nascono le favole e forse i miti più belli e intramontabili. E mi pare sempre, camminando fra le nebbie che scendono repentine dai versanti, che l’indefinito delle forme mi rassicura e mi calma, perché nell’incertezza del visibile che muta, si nasconde la possibilità per gli elementi di essere ogni volta altro per i nostri sensi.

E sto fatto mi conferma quanto sia vero che ciò che noi riteniamo essere reale, non è altro che una proiezione che la nostra coscienza ci rimanda di ciò che viviamo.

Quando non vi sono certezze, a molti nasce e cresce l’ansia, mentre a qualcun altro, come accade a me, vien da sorridere, perchè nell’incertezza, nelle sfumature di quei grigi azzurri saturi d’acqua sottile, si nasconde l’imponderabile, la magia dell’inconoscibile, delle possibilità di fantasie e percezioni infinite.

Credo che le favole più belle ed i miti intramontabili debbano molto alle nebbie, ai veli d’incertezza, alle coltri grondanti di insondabili verità. O forse è al non precludersi nessun tipo di spiegazione quando si è messi di fronte alla magnificenza dei fenomeni più inspiegabili di cui la Natura, spesso, ci fa dono, che dobbiamo la nascita dei racconti più avvincenti che hanno resistito nei secoli.

Certo, conoscere il sentiero e la direzione garantisce una certa tranquillità d’animo che altrimenti sarebbe ben difficile preservare, mi rendo conto. Nel caso specifico sapevo dove mi trovavo e dove stavo andando, quindi potevo abbandonarmi ad elucubrazioni distanti dalle contingenze più pratiche, come potrebbe essere quella di evitare di finire in un crepaccio, per dirne una.

Non lo so, però a me piace immaginarmi il mondo che da lassù si intravede fra un banco di nebbia e una nuvola pesante d’acqua, quando capitano giornate come questa. Le nebbie stimolano l’immaginazione. Penso sia un fattore tipicamente umano, quello di voler dare un contorno definito alla realtà quando questa sfugge ai sensi, intendo.

Solo che da un po’ di tempo trovo questi tentativi di istintiva razionalizzazione un po’ fuorvianti, perché non son mica tanto sicura che ciò che la mia mente completa in autonomia con un processo di definizione automatica produca effettivamente la realtà. Forse ne produce una delle tante possibili…

Va da sé che se il gioco delle correnti all’improvviso solleva il sipario, assisto il più delle volte alla famosa situazione che vede la realtà superare in magnificenza, e di gran lunga, la fantasia.

Credo che se mai un giorno arriveremo a dare delle risposte alle solite domande fondamentali che ci poniamo dall’alba dei tempi, dovremo prepararci a qualche cosa di simile,  a qualcosa che ci lascerà senza fiato… letteralmente. 😆

La pastora – seconda parte

Il momento in cui le vacche venivano liberate dalle catene e venivano spinte lungo il sentiero appena uscite dalla stalla, mi creava sempre un po’ di ansia, perché c’era il rischio che quelle si mettessero a scorrazzare a destra e a manca, andando a calpestare l’erba dei prati confinanti. Erano momenti di una certa drammaticità, dati anche dall’improvviso rumore assordante prodotto dai bronzini e dai campanacci appesi al collo delle vacche, ma sembrava che di questa cosa me ne rendessi conto solo io.
I prati confinanti di proprietà altrui erano sacri; non si doveva farci entrare le vacche, assolutamente! Pena il rischio di interminabili dissidi e rimostranze, ritenute dai miei genitori più che giustificate, da parte dei vicini. E in un posto dove i rapporti con il vicinato sono vitali per il quieto vivere e spesso anche per la sopravvivenza, queste erano cose da evitarsi con la massima cura, perché l’erba calpestata è difficile da falciare, per non parlare dell’erba imbrattata di sterco.
Le parole d’ordine erano: rispetto dei confini, sempre! E tacitamente le altre parole d’ordine erano: rispetto delle convenzioni e delle tradizioni, sempre!! I principi fulcro erano quindi: rispetto, decoro e onestà. Fine.
Ora, da dove vengo io, le proprietà sono così parcellizzate che il rischio che una o più vacche sconfinassero nelle proprietà altrui durante gli spostamenti della mandria, era sempre altissimo e quando succedeva si alzavano urla e si udivano improperi irripetibili e tutti si mettevano a correre per risolvere il problema, perché si sa che le vacche non hanno la minima idea di che cosa sia una particella catastale e a tratti si comportano come le pecore; se una esce dal gruppo, è facile che anche le altre le vadano dietro, specie se la ribelle si dirige dove c’è erba fresca.
A volte si creano dei veri gruppetti di vacche dissidenti che cercano di farla in barba ai pastori mettendo in atto vere e proprie strategie e astuzie di gruppo pur di arrivare in zone succulente poste oltre confine; l’abilità del pastore sta nell’essere abbastanza convincente e risoluto da far capire alle vacche anarchiche che non c’è storia: le regole valgono per tutte!
Questi gruppetti sono costituiti solitamente da giovani manze capeggiate da una vacca che ha già partorito; a me stavano molto simpatiche le manze, perché erano quella via di mezzo fra un cucciolo e un adulto che mi faceva tenerezza, ma creavano sempre un po’ di problemi, quindi non dovevo darlo troppo a vedere. Anche fra le vacche gli adolescenti andavano frenati e controllati, in nome del quieto vivere della mandria tutta.
Un tempo tutti i sentieri erano delimitati dalle staccionate in legno. Le staccionate erano solide e fitte, costruite con dei pali di maggiociondolo infissi nel terreno e delle aste di larice lunghe diversi metri e inchiodate sui pali, incastrate l’una nell’altra in senso orizzontale. Il larice ed il maggiociondolo venivano scelti per le staccionate perché sono i legni più resistenti e duraturi. Un palo di maggiociondolo resiste per decenni, seppure infisso nel terreno, e la resina del larice protegge la cellulosa dalle intemperie. Un tempo il paesaggio delle mie montagne era costellato ovunque dalla presenza di queste recinzioni; ovunque vi fosse un confine di proprietà e una mulattiera o un sentiero vi era una staccionata.
Poi, nel tempo, si è persa la consuetudine di fare manutenzione alle staccionate; un po’ perché il numero dei capi di bestiame, a seguito dell’esodo dei contadini di montagna verso le fabbriche di fondovalle, era sempre più esiguo e un po’ perché la graduale meccanizzazione dello sfalcio dei prati richiedeva una certa libertà di movimento per i mezzi. E allora questo caratteristico elemento dei paesaggi montani venne pian, piano a scomparire. Fu uno dei primi segnali del cambiamento.
E fu così che per delimitare il passaggio delle vacche e del bestiame in genere, nei punti dove ormai le vecchie staccionate avevano ceduto, si ripiegava su del filo di ferro o su delle fettucce plastificate orribili a vedersi, sostenute da ganci in plastica altrettanto brutti, ma tuttavia funzionali; sono queste le tipiche recinzioni amovibili che vengono usate oggigiorno da tutti i pastori.
Una volta avviata la mandria c’era chi doveva precederla chiamandola e chi doveva seguirla, spingendola. Ora, può sembrare strano, ma le vacche se tu le chiami ti seguono e non è solo una questione affettiva, non funziona esattamente come per i cani; le vacche ti seguono perché tu hai il sale nella sacca, o perché fingi di averlo.
In fin dei conti, come accade spesso anche nella vita non bovina, seppure può risultare un po’ cinico dirlo, la fedeltà e l’obbedienza sono spesso dettate da una base opportunista e interessata. Le vacche non fanno eccezione. Loro ti identificano come “quella che potrebbe darmi il sale” e più le chiami e più abbassano la testa per accelerare il passo ed arrivare per prime all’obiettivo, ovvero la manciata di sale; in tal senso è anche una questione di competizione, se vogliamo.
Il richiamo delle vacche da parte del pastore che precede la mandria nel mio dialetto filo tedesco ha tutta una sua filosofia e consta di regole di sonorizzazione abbastanza precise.
La peculiarità di tale richiamo varia da famiglia di allevatori a famiglia di allevatori, ma la regola essenziale è sempre la stessa: le vocali vanno tenute a lungo e a piena voce come in un canto che, a seconda delle doti canore del pastore, può risultare più o meno stonato.
Ogni tanto, perché il richiamo risulti più convincente e meno impersonale per le vacche, si pronuncia il nome di questa o di quell’altra vacca*, in modo tale che sentendosi chiamare per nome, quelle pensino: “Oh caspita! Sta chiamando proprio me! Vuoi vedere che mi riserva un po’ di sale?!!”
Potrebbe sembrare una cosa priva di buon senso e di ogni logica razionale, eppure i risultati di attente osservazioni sul campo dimostrano senza ombra di dubbio che le vacche riconoscono il richiamo del proprio nome, e seppure non ho mezzi scientifici per comprovare le mie affermazioni, confido nella fiducia che spero mi si vorrà accordare in qualità di pastora di consolidata esperienza, seppur non più praticante.
Il richiamo delle vacche fa più o meno così: “Géééééàààààdòòòòò géééééààààààà….. Géééééééééààààààà Balin* dòòòòòòòòòòò géééééééééààààààààààààààààààààààà… Gea zoltz dòòòòòòòòòò géééééééàààààààà….”
Tradotto significa: Viiiiiiieeeeeeeeeeniiiiiiiiiiii quiiiiiiiiiiiiiiiiii vieeeeeeeeeeeeeniiiiiiiiiiii, vieeeeeeeeniiiiiii Balin, quiiiiiiii vieeeeniiiiiiiiiiiiiiiii. VIeniiiiiiiiiiiiiiiii c’è il sale, vieniiiiiiiiiiii…. e così via.
Se le vacche son pigre, come spesso si verifica quando alla sera son sazie e un po’ stanche, il richiamo va tenuto fino alla stalla; il che richiede un notevole dispendio di energie in termini di usura di corde vocali, polmoni e diaframma. Tuttavia per un pastore che ha trascorso tutto il giorno in solitaria e in silenzio fra le montagne, il richiamo della mandria, a mio parere, può risultare anche un piacevole sfogo e un collaudo delle proprie immutate capacità vocali.
Diversi sono i richiami per le capre; questi hanno un suono più secco e breve, forse un po’ per conformarsi al carattere più spigoloso, indipendente, dispettoso e recalcitrante di questi animali rispetto al carattere più bonario e relativamente mansueto delle vacche. Tranne che per le vocali finali che, anche in questo caso, si tengono spesso un po’ più a lungo, le capre si chiamano più o meno in questo modo: Lèkkkka lèkkkkka tziààààààà!!! Lèkkka lèkkka lèkkka tziààààà. Tziàààà tziàààààhhh.
Non c’è traduzione.
Le capre sono animali incredibilmente strafottenti: se hai il sale e le chiami ti seguono; se credono che tu abbia il sale e le chiami, ti seguono; se si accorgono che tu fingi di avere il sale e non ce l’hai, tu le chiami, ma loro ti ignorano. Con la vacca puoi giocare un po’ più d’astuzia, perché è di indole più fiduciosa, ma non si può tirare troppo la corda; gli animali come le persone, dopo un po’ che danno fiducia senza ottenere risultato, si ribellano o perdono interesse.
Anche per il richiamo delle capre esistono diverse varianti da pastore a pastore, ma in qualsiasi caso è fondamentale non farsi prendere dall’ilarità mentre si effettua il richiamo, perché altrimenti il gregge smette di prenderti sul serio e come pastora hai finito la carriera.
La vacca che precede la mandria è solitamente la più vecchia o comunque la più scaltra del gruppo, neanche a dirlo. Le si mette il campanaccio più buono, ovvero quello che si fa sentire a maggiore distanza. Come capo mandria abbiamo avuto per lungo tempo una vacca di razza Rendena, di quelle tutte nere, di taglia medio piccola, tenaci, rustiche, cocciute e ottime produttrici di latte e vitelli sani; la nostra rendena aveva le corna ritorte in avanti e si chiamava Balin, perché ricordava un po’ la forma sferica di un pallettone da doppietta e fu la capostipite di diverse generazioni successive di rendene.
Balin era la più vecchia della mandria ed era una vacca furbissima. Aveva una memoria che nemmeno gli elefanti; lei si ricordava tutti i sentieri e tutti i percorsi più comodi per arrivare ai pascoli. Le altre vacche nemmeno si mettevano a discutere su chi di loro doveva guidare la mandria e tutte sapevano che quando Balin si muoveva, loro dovevano muoversi e seguirla, punto.
A parer mio, molti manager che gestiscono gli interessi ed i beni comuni di noi poveri mortali avrebbero molto da imparare da una vacca come Balin; lei era una leader indiscussa perché nel concreto sapeva portare le altre dove la situazione vitale era ottimale, sia dal punto di vista del pascolo sicuro, sia dal punto di vista dell’abbondanza e della qualità del foraggio nei diversi periodi dell’anno.
Se non ci fossero stati tutti quei limiti dati dai confini di proprietà imposti dalla logica umana, a Balin si sarebbe potuto benissimo affidare tutta la mandria alla mattina, stando certi che lei alla sera l’avrebbe riportata alla stalla in orario per la mungitura e che tutte le vacche sarebbero rientrate sazie, riposate e pasciute.
Purtroppo, nonostante le sue indiscutibili doti di leader incontestata, Balin non si faceva scrupolo a sconfinare nei prati altrui, specie se quelli dovevano ancora esser falciati e tantomeno si poneva il problema degli orti o dei campi coltivati a cavoli che, anzi, per lei erano il vero obiettivo inconfessabile e sempre presente nelle sue strategie di movimento quando ci si trovava alle quote più basse e vicino ai centri abitati.
Quindi la leader andava tenuta d’occhio; questo faceva parte del mio lavoro ed è un po’ quello che noi tutti in qualità di cittadini dovremmo continuare a fare anche in contesti diversi da quello zootecnico.

La pastora – Prima parte

Si dice “pastora”? Si può dire? Non lo so, comunque se anche non si può, io lo dico lo stesso, perché io sono stata una pastora, non un pastore. Avevo otto anni, più o meno. Da aprile a settembre inoltrato ci si alzava presto, troppo presto per i miei gusti. Tuttavia, una volta superato il dramma della levataccia e messo il naso fuori casa, la cosa non mi dispiaceva poi tanto. L’aria del mattino era fresca, quasi fredda e dopo il primo impatto non proprio piacevole dove si potevano osservare benissimo i peli sulle braccia nude che si drizzavano all’improvviso, la sensazione diventava quasi gradevole specie una volta che si cominciava a camminare. Nei prati al mattino c’erano i merli e le cince e altri uccelli e quando io correvo nell’erba bagnata, loro si alzavano in volo, scostandosi appena un po’ e mi davano il buongiorno. Anche le cavallette saltavano a destra e a sinistra al mio passaggio; quelle grandi e verde brillante con le ali lunghe e le zampe posteriori potenti, e quelle più piccole e colorate con le zampette e le ali meno possenti. Era divertente, davvero divertente. Se pioveva fin dal mattino, allora non si andava, si rimaneva a casa, quasi sempre. Nei mesi caldi, la mattina si andava a prendere il pane nel piccolo negozio del paese e ci si comprava un po’ di viveri per la giornata da mettere nello zaino, prima di partire con la mandria delle vacche. Il pane veniva portato con un furgone bianco dal proprietario di un panificio che si trovava nel fondovalle, nel paese di Canezza, a nemmeno venti chilometri di distanza; era un pane buonissimo ed aveva un profumo che una poi non se lo scorda più e va a finire che tutto il pane che mangerà in seguito lo paragonerà con quello, che però sarà inarrivabile per profumo, gusto, croccantezza e sapore. Le persone che si incontravano nel negozietto del paese erano sempre le stesse e avevo la sensazione che sarebbero rimaste le stesse per tutta la vita; sempre con quelle facce e sempre con il loro particolare modo di salutare, di muoversi, di esserci. Non sapevo ancora che il tempo avrebbe cambiato le cose e che soprattutto avrebbe cambiato quelle persone; non potevo ancora rendermene conto. Adesso, quando rivedo queste stesse persone, quelle poche volte che ritorno in paese, mi pervade un senso di affetto sincero nei loro confronti, un senso di rimpianto per il tempo perduto, per il tempo in cui non le ho viste cambiare, invecchiare, diventare quello che sono adesso. Tornata a casa dopo la spesa facevo colazione con tazzone di latte e caffè, uova sbattute con lo zucchero e chilate di pane fresco; un inno al carboidrato, all’esubero di calorie e alla proteina animale! Poi mia sorella preparava lo zaino con il tè, il pane, le solite scatolette di tonno con i fagioli ed i soliti due yogurt alla banana e subito dopo si andava insieme in stalla per liberare le vacche.