Una volta avviata la mandria, si saliva. Le vacche dalle mi parti, una volta uscite dalla stalla, dovevano quasi sempre camminare in salita; questa era la regola insindacabile data dalla conformazione del territorio. A me questa regola non è che piacesse molto e nemmeno alle nostre vacche, notavo. Tuttavia i pascoli si trovavano “sempre un po’ più su” di dove era ubicata la stalla. Il camminare in salita alla mattina e in discesa alla sera era pane quotidiano, per me e anche per le vacche. Per arrivare ai prati, appena usciti dal paese, si dovevano attraversare il più delle volte i boschi; quella era la parte più facile del lavoro, perché le vacche in un bosco di conifere non erano come le capre, che si spostano ovunque se non spinte con insistenza. Le vacche non ci pensavano nemmeno a cambiare direzione e ad uscire dalla mulattiera, se non altro perché camminando su un terreno reso acido e privo di vegetazione dagli aghi degli abeti, gli stimoli per distrarsi dai pascoli d’erba che loro sapevano trovarsi più a monte, per una vacca affamata erano pressoché inesistenti. Il rientro poteva risultare più impegnativo, perché le vacche sazie sono più svogliate e meno propense a rientrare per farsi mettere la catena al collo, ma verso sera sentivano lo stimolo a farsi mungere e questo aiutava. Il compito di spingere la mandria, sia all’andata, sia al ritorno era mio e c’era in tale attività qualche cosa che mi piaceva poco; piuttosto che spingere la mandria, avrei preferito precederla. Tuttavia precedere la mandria era compito del più anziano in grado e nel caso specifico se ne occupava mia sorella, perché per mere questioni di età, il capo incontestabile era lei. Successivamente ebbi modo di capire che questa regola è universalmente riconosciuta in una società tradizionalista, seppure spesso è controproducente per il bene comune. Ma non divaghiamo. C’è da dire che spingere la mandria è un lavoro che ha un che di noioso; un po’ perché ti piacerebbe sempre sapere dov’è arrivata Balin lì davanti, e un po’ perché devi seguire un ritmo imposto, a volte troppo veloce e a volte decisamente troppo lento. Questo fatto che per forza di cose ero costretta ad assecondare una camminata non mia, mi portava ad annoiarmi parecchio e spesso attraversando i boschi, a differenza delle vacche, io mi distraevo. Ora, in un bosco i motivi di distrazione possono essere milioni, forse anche miliardi, perché a parte l’anatomia precisa della parte posteriore di una vacca che segue un’altra vacca, che a sua volta segue un’altra vacca, nonché le valutazioni più o meno attente dei prodotti delle attività fisiologiche che una mandria spinta in salita inevitabilmente produce, all’epoca mi pareva che non ci fosse molto altro che potesse rientrare nelle valutazioni attente del quadro poco complesso di questa parte del lavoro. Tranne la necessità di camminare per non rimanere indietro. Ecco, quest’ultima parte spesso mi sfuggiva e capitava sovente che quando la mandria giungeva al pascolo, io mi trovassi un po’ indietro, a volte parecchio indietro, spesso e forse inconsapevolmente spersa fra gli abeti e intenta in attività che a me sembravano di estremo interesse e di rilevante importanza, ma che a mia madre e soprattutto a mia sorella, non piacevano affatto perché, mi ricordo benissimo, si ostinavano a definirle più o meno come “bighellonaggio ozioso”. Crebbi con un lieve senso di colpa dovuto a queste incresciose incomprensioni, ma sopravvissi. In seguito, quando mia sorella cominciò a lavorare fuori casa, dovetti occuparmi da sola delle vacche ed il problema su chi doveva precedere la mandria non si poneva più; potevo gestirmi la cosa più o meno liberamente e di conseguenza anche i sensi di colpa svanirono. A volte, al rientro, precedevo la mandria facendo la parte di “quella che potrebbe darmi il sale”, altre volte, quando le vacche non volevano proprio saperne di lasciare il pascolo, le spingevo usando un bastone come mero strumento di minaccia. Loro un po’ ci credevano al mio bastone e un po’ no, perché mi conoscevano bene e quando non ci credevano per nulla arrivavo ad appoggiarlo sulle natiche di qualcuna, ma senza farle male; allora rinsavivano all’improvviso e la convinzione prendeva il posto dell’ ostentata incredulità mentre la marcia incerta si faceva decisamente più spedita. Detestavo chi usava il bastone con veemenza e odiavo chi lo usava con violenza su un animale attaccato alla catena. Da bambina ho assistito a scene di questo tipo e l’orrore e la rabbia ed il senso di importanza che mi procurarono queste esperienze covano ancora dentro di me, da qualche parte. Ero inerme e troppo piccola e non potevo farci niente, ma mi ripromisi che appena sarei diventata grande avrei punito chiunque si fosse comportato in quel modo con una vacca o con un animale qualsiasi! In seguito ebbi modo di mantenere la promessa, a mio modo. Per me il bastone doveva essere bello, intagliato, leggero e resistente, utile ad agevolare il cammino e quindi parecchio lungo e soprattutto era uno strumento di contorno nel lavoro, seppure conferiva una certa autorevolezza agli occhi della mandria. In seguito, nel tempo, noi come quasi tutte le altre famiglie vendemmo un po’ alla volta molte delle nostre vacche. Mio padre aveva trovato un buon lavoro in città e faceva il contadino nel tempo libero; nel periodo in cui seguivo la mandria da sola avevamo dalle dieci alle otto vacche, non di più, poi sempre meno e più avanti anche il periodo in cui si facevano pascolare nei prati si ridusse, preferendo tenerle ferme in stalla per occuparsi in prevalenza della coltivazione di campi con piccoli frutti, del taglio del fieno e dell’accumulo della scorta di foraggio per l’inverno. Il prezzo del latte che si spuntava vendendolo al consorzio non valeva la candela e tutti i contadini della mia zona, uno dopo l’altro, furono costretti a vendere il bestiame e a ripiegare su un lavoro in fabbrica fuori paese, o come manovali o altro, lasciando così la loro montagna a sè stessa, divenendo dei pendolari e in molti casi e dopo qualche anno, preferendo lasciare la Valle definitivamente per stabilirsi in città. Io ho assistito e fatto parte di questo esodo e ne ho sofferto, un po’ come tutti quelli che come me sono nati e cresciuti sulle montagne e hanno dovuto lasciarle. Ci fu chi tentò di resistere più a lungo, allevando in tempi più recenti le sue vacche Rendene contro ogni logica di guadagno e di profitto, ma a lungo andare anche gli irriducibili furono costretti ad arrendersi all’evidenza; una piccola azienda posta in zone difficili non poteva competere con le produzioni industriali dei grandi stalloni di fondovalle, specialmente se la realizzazione e la gestione di questi ultimi veniva finanziata dall’ente pubblico, mentre ai piccoli agricoltori zootecnici di montagna che non guadagnavano a sufficienza per mantenere le loro famiglie, non veniva dato un aiuto sufficiente e concreto. La fatica puntellata dalla tenacia e sopportata dai montanari pur di rimanere aggrappati ai posti dove erano nati, venne sostituita gradualmente dalla prospettiva di un’esistenza più comoda e remunerativa da condursi altrove. Fu una scelta sofferta, ma obbligata. Una vita di stenti priva di ritorno economico non aveva più motivo di essere, visto che la città offriva l’alternativa. Dilagò il senso di rinuncia da parte delle vecchie generazioni e l’impellente esigenza di una vita più sicura e comoda da parte dei figli. Credo che nello scambio si sia perso molto in termini di esperienza umana, di conoscenze, di rapporto con il territorio, ma forse la mia è l’ultima generazione che sa rendersene ancora conto, perché è stata quella che ha visto e vissuto il passaggio da uno stile di vita all’altro. Le conseguenze più nefaste sono l’abbandono delle zone un tempo abitate, la mancata manutenzione delle stesse, specie nelle aree più esposte e ripide ed i conseguenti problemi in termini di stabilità idrogeologica che si stanno verificando con sempre maggior frequenza. Tutto questo si ripercuote sulla sicurezza delle aree di fondovalle, esposte a rischi di cedimenti dei versanti, frane e piene dei torrenti e dei grandi fiumi. All’epoca nessuno chiuse la propria azienda e la propria piccola stalla a cuor leggero, nessuno, nemmeno la mia famiglia, ma è così che andò e forse non c’è molto altro da aggiungere, se non che la mia carriera di pastora fu inesorabilmente frenata dagli eventi, trasformandosi in ricordo nostalgico e ormai in una sempre più vecchia storia da raccontare.
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La pastora – seconda parte
Il momento in cui le vacche venivano liberate dalle catene e venivano spinte lungo il sentiero appena uscite dalla stalla, mi creava sempre un po’ di ansia, perché c’era il rischio che quelle si mettessero a scorrazzare a destra e a manca, andando a calpestare l’erba dei prati confinanti. Erano momenti di una certa drammaticità, dati anche dall’improvviso rumore assordante prodotto dai bronzini e dai campanacci appesi al collo delle vacche, ma sembrava che di questa cosa me ne rendessi conto solo io.
I prati confinanti di proprietà altrui erano sacri; non si doveva farci entrare le vacche, assolutamente! Pena il rischio di interminabili dissidi e rimostranze, ritenute dai miei genitori più che giustificate, da parte dei vicini. E in un posto dove i rapporti con il vicinato sono vitali per il quieto vivere e spesso anche per la sopravvivenza, queste erano cose da evitarsi con la massima cura, perché l’erba calpestata è difficile da falciare, per non parlare dell’erba imbrattata di sterco.
Le parole d’ordine erano: rispetto dei confini, sempre! E tacitamente le altre parole d’ordine erano: rispetto delle convenzioni e delle tradizioni, sempre!! I principi fulcro erano quindi: rispetto, decoro e onestà. Fine.
Ora, da dove vengo io, le proprietà sono così parcellizzate che il rischio che una o più vacche sconfinassero nelle proprietà altrui durante gli spostamenti della mandria, era sempre altissimo e quando succedeva si alzavano urla e si udivano improperi irripetibili e tutti si mettevano a correre per risolvere il problema, perché si sa che le vacche non hanno la minima idea di che cosa sia una particella catastale e a tratti si comportano come le pecore; se una esce dal gruppo, è facile che anche le altre le vadano dietro, specie se la ribelle si dirige dove c’è erba fresca.
A volte si creano dei veri gruppetti di vacche dissidenti che cercano di farla in barba ai pastori mettendo in atto vere e proprie strategie e astuzie di gruppo pur di arrivare in zone succulente poste oltre confine; l’abilità del pastore sta nell’essere abbastanza convincente e risoluto da far capire alle vacche anarchiche che non c’è storia: le regole valgono per tutte!
Questi gruppetti sono costituiti solitamente da giovani manze capeggiate da una vacca che ha già partorito; a me stavano molto simpatiche le manze, perché erano quella via di mezzo fra un cucciolo e un adulto che mi faceva tenerezza, ma creavano sempre un po’ di problemi, quindi non dovevo darlo troppo a vedere. Anche fra le vacche gli adolescenti andavano frenati e controllati, in nome del quieto vivere della mandria tutta.
Un tempo tutti i sentieri erano delimitati dalle staccionate in legno. Le staccionate erano solide e fitte, costruite con dei pali di maggiociondolo infissi nel terreno e delle aste di larice lunghe diversi metri e inchiodate sui pali, incastrate l’una nell’altra in senso orizzontale. Il larice ed il maggiociondolo venivano scelti per le staccionate perché sono i legni più resistenti e duraturi. Un palo di maggiociondolo resiste per decenni, seppure infisso nel terreno, e la resina del larice protegge la cellulosa dalle intemperie. Un tempo il paesaggio delle mie montagne era costellato ovunque dalla presenza di queste recinzioni; ovunque vi fosse un confine di proprietà e una mulattiera o un sentiero vi era una staccionata.
Poi, nel tempo, si è persa la consuetudine di fare manutenzione alle staccionate; un po’ perché il numero dei capi di bestiame, a seguito dell’esodo dei contadini di montagna verso le fabbriche di fondovalle, era sempre più esiguo e un po’ perché la graduale meccanizzazione dello sfalcio dei prati richiedeva una certa libertà di movimento per i mezzi. E allora questo caratteristico elemento dei paesaggi montani venne pian, piano a scomparire. Fu uno dei primi segnali del cambiamento.
E fu così che per delimitare il passaggio delle vacche e del bestiame in genere, nei punti dove ormai le vecchie staccionate avevano ceduto, si ripiegava su del filo di ferro o su delle fettucce plastificate orribili a vedersi, sostenute da ganci in plastica altrettanto brutti, ma tuttavia funzionali; sono queste le tipiche recinzioni amovibili che vengono usate oggigiorno da tutti i pastori.
Una volta avviata la mandria c’era chi doveva precederla chiamandola e chi doveva seguirla, spingendola. Ora, può sembrare strano, ma le vacche se tu le chiami ti seguono e non è solo una questione affettiva, non funziona esattamente come per i cani; le vacche ti seguono perché tu hai il sale nella sacca, o perché fingi di averlo.
In fin dei conti, come accade spesso anche nella vita non bovina, seppure può risultare un po’ cinico dirlo, la fedeltà e l’obbedienza sono spesso dettate da una base opportunista e interessata. Le vacche non fanno eccezione. Loro ti identificano come “quella che potrebbe darmi il sale” e più le chiami e più abbassano la testa per accelerare il passo ed arrivare per prime all’obiettivo, ovvero la manciata di sale; in tal senso è anche una questione di competizione, se vogliamo.
Il richiamo delle vacche da parte del pastore che precede la mandria nel mio dialetto filo tedesco ha tutta una sua filosofia e consta di regole di sonorizzazione abbastanza precise.
La peculiarità di tale richiamo varia da famiglia di allevatori a famiglia di allevatori, ma la regola essenziale è sempre la stessa: le vocali vanno tenute a lungo e a piena voce come in un canto che, a seconda delle doti canore del pastore, può risultare più o meno stonato.
Ogni tanto, perché il richiamo risulti più convincente e meno impersonale per le vacche, si pronuncia il nome di questa o di quell’altra vacca*, in modo tale che sentendosi chiamare per nome, quelle pensino: “Oh caspita! Sta chiamando proprio me! Vuoi vedere che mi riserva un po’ di sale?!!”
Potrebbe sembrare una cosa priva di buon senso e di ogni logica razionale, eppure i risultati di attente osservazioni sul campo dimostrano senza ombra di dubbio che le vacche riconoscono il richiamo del proprio nome, e seppure non ho mezzi scientifici per comprovare le mie affermazioni, confido nella fiducia che spero mi si vorrà accordare in qualità di pastora di consolidata esperienza, seppur non più praticante.
Il richiamo delle vacche fa più o meno così: “Géééééàààààdòòòòò géééééààààààà….. Géééééééééààààààà Balin* dòòòòòòòòòòò géééééééééààààààààààààààààààààààà… Gea zoltz dòòòòòòòòòò géééééééàààààààà….”
Tradotto significa: Viiiiiiieeeeeeeeeeniiiiiiiiiiii quiiiiiiiiiiiiiiiiii vieeeeeeeeeeeeeniiiiiiiiiiii, vieeeeeeeeniiiiiii Balin, quiiiiiiii vieeeeniiiiiiiiiiiiiiiii. VIeniiiiiiiiiiiiiiiii c’è il sale, vieniiiiiiiiiiii…. e così via.
Se le vacche son pigre, come spesso si verifica quando alla sera son sazie e un po’ stanche, il richiamo va tenuto fino alla stalla; il che richiede un notevole dispendio di energie in termini di usura di corde vocali, polmoni e diaframma. Tuttavia per un pastore che ha trascorso tutto il giorno in solitaria e in silenzio fra le montagne, il richiamo della mandria, a mio parere, può risultare anche un piacevole sfogo e un collaudo delle proprie immutate capacità vocali.
Diversi sono i richiami per le capre; questi hanno un suono più secco e breve, forse un po’ per conformarsi al carattere più spigoloso, indipendente, dispettoso e recalcitrante di questi animali rispetto al carattere più bonario e relativamente mansueto delle vacche. Tranne che per le vocali finali che, anche in questo caso, si tengono spesso un po’ più a lungo, le capre si chiamano più o meno in questo modo: Lèkkkka lèkkkkka tziààààààà!!! Lèkkka lèkkka lèkkka tziààààà. Tziàààà tziàààààhhh.
Non c’è traduzione.
Le capre sono animali incredibilmente strafottenti: se hai il sale e le chiami ti seguono; se credono che tu abbia il sale e le chiami, ti seguono; se si accorgono che tu fingi di avere il sale e non ce l’hai, tu le chiami, ma loro ti ignorano. Con la vacca puoi giocare un po’ più d’astuzia, perché è di indole più fiduciosa, ma non si può tirare troppo la corda; gli animali come le persone, dopo un po’ che danno fiducia senza ottenere risultato, si ribellano o perdono interesse.
Anche per il richiamo delle capre esistono diverse varianti da pastore a pastore, ma in qualsiasi caso è fondamentale non farsi prendere dall’ilarità mentre si effettua il richiamo, perché altrimenti il gregge smette di prenderti sul serio e come pastora hai finito la carriera.
La vacca che precede la mandria è solitamente la più vecchia o comunque la più scaltra del gruppo, neanche a dirlo. Le si mette il campanaccio più buono, ovvero quello che si fa sentire a maggiore distanza. Come capo mandria abbiamo avuto per lungo tempo una vacca di razza Rendena, di quelle tutte nere, di taglia medio piccola, tenaci, rustiche, cocciute e ottime produttrici di latte e vitelli sani; la nostra rendena aveva le corna ritorte in avanti e si chiamava Balin, perché ricordava un po’ la forma sferica di un pallettone da doppietta e fu la capostipite di diverse generazioni successive di rendene.
Balin era la più vecchia della mandria ed era una vacca furbissima. Aveva una memoria che nemmeno gli elefanti; lei si ricordava tutti i sentieri e tutti i percorsi più comodi per arrivare ai pascoli. Le altre vacche nemmeno si mettevano a discutere su chi di loro doveva guidare la mandria e tutte sapevano che quando Balin si muoveva, loro dovevano muoversi e seguirla, punto.
A parer mio, molti manager che gestiscono gli interessi ed i beni comuni di noi poveri mortali avrebbero molto da imparare da una vacca come Balin; lei era una leader indiscussa perché nel concreto sapeva portare le altre dove la situazione vitale era ottimale, sia dal punto di vista del pascolo sicuro, sia dal punto di vista dell’abbondanza e della qualità del foraggio nei diversi periodi dell’anno.
Se non ci fossero stati tutti quei limiti dati dai confini di proprietà imposti dalla logica umana, a Balin si sarebbe potuto benissimo affidare tutta la mandria alla mattina, stando certi che lei alla sera l’avrebbe riportata alla stalla in orario per la mungitura e che tutte le vacche sarebbero rientrate sazie, riposate e pasciute.
Purtroppo, nonostante le sue indiscutibili doti di leader incontestata, Balin non si faceva scrupolo a sconfinare nei prati altrui, specie se quelli dovevano ancora esser falciati e tantomeno si poneva il problema degli orti o dei campi coltivati a cavoli che, anzi, per lei erano il vero obiettivo inconfessabile e sempre presente nelle sue strategie di movimento quando ci si trovava alle quote più basse e vicino ai centri abitati.
Quindi la leader andava tenuta d’occhio; questo faceva parte del mio lavoro ed è un po’ quello che noi tutti in qualità di cittadini dovremmo continuare a fare anche in contesti diversi da quello zootecnico.
La pastora – Prima parte
Si dice “pastora”? Si può dire? Non lo so, comunque se anche non si può, io lo dico lo stesso, perché io sono stata una pastora, non un pastore. Avevo otto anni, più o meno. Da aprile a settembre inoltrato ci si alzava presto, troppo presto per i miei gusti. Tuttavia, una volta superato il dramma della levataccia e messo il naso fuori casa, la cosa non mi dispiaceva poi tanto. L’aria del mattino era fresca, quasi fredda e dopo il primo impatto non proprio piacevole dove si potevano osservare benissimo i peli sulle braccia nude che si drizzavano all’improvviso, la sensazione diventava quasi gradevole specie una volta che si cominciava a camminare. Nei prati al mattino c’erano i merli e le cince e altri uccelli e quando io correvo nell’erba bagnata, loro si alzavano in volo, scostandosi appena un po’ e mi davano il buongiorno. Anche le cavallette saltavano a destra e a sinistra al mio passaggio; quelle grandi e verde brillante con le ali lunghe e le zampe posteriori potenti, e quelle più piccole e colorate con le zampette e le ali meno possenti. Era divertente, davvero divertente. Se pioveva fin dal mattino, allora non si andava, si rimaneva a casa, quasi sempre. Nei mesi caldi, la mattina si andava a prendere il pane nel piccolo negozio del paese e ci si comprava un po’ di viveri per la giornata da mettere nello zaino, prima di partire con la mandria delle vacche. Il pane veniva portato con un furgone bianco dal proprietario di un panificio che si trovava nel fondovalle, nel paese di Canezza, a nemmeno venti chilometri di distanza; era un pane buonissimo ed aveva un profumo che una poi non se lo scorda più e va a finire che tutto il pane che mangerà in seguito lo paragonerà con quello, che però sarà inarrivabile per profumo, gusto, croccantezza e sapore. Le persone che si incontravano nel negozietto del paese erano sempre le stesse e avevo la sensazione che sarebbero rimaste le stesse per tutta la vita; sempre con quelle facce e sempre con il loro particolare modo di salutare, di muoversi, di esserci. Non sapevo ancora che il tempo avrebbe cambiato le cose e che soprattutto avrebbe cambiato quelle persone; non potevo ancora rendermene conto. Adesso, quando rivedo queste stesse persone, quelle poche volte che ritorno in paese, mi pervade un senso di affetto sincero nei loro confronti, un senso di rimpianto per il tempo perduto, per il tempo in cui non le ho viste cambiare, invecchiare, diventare quello che sono adesso. Tornata a casa dopo la spesa facevo colazione con tazzone di latte e caffè, uova sbattute con lo zucchero e chilate di pane fresco; un inno al carboidrato, all’esubero di calorie e alla proteina animale! Poi mia sorella preparava lo zaino con il tè, il pane, le solite scatolette di tonno con i fagioli ed i soliti due yogurt alla banana e subito dopo si andava insieme in stalla per liberare le vacche.