Boschi – parte seconda –

Le parole raramente sono degne delle immagini della Natura; forse a volte ci può riuscire la Poesia a rendere merito alla bellezza, o alle cose dell’animo che vengono smosse da certi luoghi, da certi dettagli. Per me che non so poetare, ad esempio, non esistono parole utili per la descrizione di un verde, o di una luce, o di una sensazione provata in un bosco, ma occorre provare a cercarle comunque queste parole, perché cercare le parole adatte è un po’ come cercare di entrare in noi stessi.

Perché vi è differenza fra il vedere e il guardare e vi è differenza fra il sentire e l’ascoltare. Sono parole, ma non sono “solo” parole. Credo fermamente che soprattutto fra gli adulti, bisognerebbe educare se stessi a guardare ed ascoltare, e lasciare il vedere e il sentire ai margini delle nostre percezioni, per dirne una.

Dove sta la differenza? Beh, questo lo si può chiedere agli alberi, ai boschi, alle foglie, al silenzio o al ronzio degli insetti, all’odore della terra e dei muschi… la differenza sta sempre nei dettagli, ovviamente. Ma per percepire i dettagli occorre guardare bene, e ascoltare in un modo più attento, profondo. Diciamo che se per vedere bastano gli occhi, se per sentire bastano le orecchie… beh, per guardare ed ascoltare ci vuole tutto il nostro essere. E per usare davvero tutto il nostro essere, occorre fare esperienza di noi stessi in un modo molto più profondo e impegnativo di come siamo abituati a fare nelle nostre deliranti vite soverchiate dal quotidiano delirante.

I bambini sono maestri nel porsi in ascolto e nel porsi in contemplazione… i bambini lo sanno fare, e bene! Basterebbe prendere esempio, basterebbe smettere di insegnare loro qual è il modo più razionale di “leggere” le cose del mondo… basterebbe osservarli per qualche minuto nello stesso modo in cui loro osservano il tutto. Ci vuole grande attenzione, concentrazione, per osservare il mondo con gli occhi di un bambino. Lo sapevamo fare anche noi, ma poi ci hanno insegnato a dimenticarcene. E’ un gran peccato dimenticare per strada queste immense capacità. Per riuscire a guardare e ascoltare con gli occhi di un bambino, bisogna essere in grado di farsi assorbire da una visione, da una musica, da un silenzio; in poche parole occorre sapersi gustare il mondo come solo i più piccoli sanno fare. Ma oramai per noi adulti queste sono capacità atrofizzate e rese mute, soffocate fra le spire del ragionamento razionale.

Vi è forse un antidoto a questa menomazione data dall’educazione fin troppo pragmatica, se interessa: ho scoperto che occorre spegnere il televisore e il cellulare, innanzitutto. E’ una regola imprescindibile. E poi occorre andare dove si può cominciare a camminare nei boschi. Poi si entra fra gli alberi, lasciando che il percorso sia casuale, che il bosco ci inghiotta e ci attiri sempre più nel profondo; perdendosi nel suo labirinto di tronchi, rami, foglie e stupendosi ad ogni passo, ad ogni nuova pianta, ad ogni scricchiolio di rami e ad ogni nuovo gioco di luce fra le foglie. I boschi, i fiori, le piante, gli animali selvatici possono salvarci dalla rigidità dei sensi; possono scioglierci la durezza del cuore e possono insegnarci a sorridere di nuovo, a respirare a lunghe sorsate di freschezza, fino a far arrivare un largo sorriso giù nel profondo dell’anima.

Occorre provare sentieri mai percorsi, vie nuove ed essere curiosi e attenti, proprio come sanno essere i bambini; stupirsi della bellezza, usare gli occhi per guardare, usare il naso per annusare odori e sensazioni nuove, usare il tatto ad occhi chiusi per accarezzate i muschi, i tronchi degli alberi e l’erba; rimanere magari immobili nel bel mezzo di una radura, con gli occhi chiusi, immobili, ad ascoltare; sentire il battito del proprio cuore e rendersi conto di averne ancora uno; può sembrare ridicolo per un adulto, ma sapere di avere un cuore, esserne pienamente consapevoli, non è per nulla scontato.

Il coraggio

Ci vuole molto coraggio per vivere la felicità, quando questa si presenta alla porta e ancora non la si era mai potuta veramente conoscere prima.

Pare abbia un volto terrificante, tanto spaventoso da renderla irriconoscibile; e così c’è chi preferisce tenere la porta chiusa, e rimanere rintanato, al sicuro, entro le solite cupe quattro mura grondanti  di tristezza.

Mentre fuori il sole fa scoppiare le gemme di gioia, e tutto è imprevedibile e meraviglioso… e trovo strano che solo in pochi, di tutta questa gioia, se ne curino.

 

Il dolore inevitabile

Non ho molte risposte, nemmeno alcune, il più delle volte. Ho dei dubbi e spesso delle dubbie convinzioni; non è molto, ma è quanto mi permette di vivere, evitando di dovermi accontentare di sopravvivere. E comunque sia preferisco le domande alle risposte; le domande lasciano spazio alla mente, alle possibilità, all’immaginazione.
E credo ci sia molto bisogno di immaginazione, oggi più che mai! Questa è una delle mie poche convinzioni. C’è chi ride, ad esempio, di una mia idea in merito al dolore inevitabile che tutti, nessuno escluso, ci troviamo prima o poi sulla strada. Nessuna vita è priva di dolore, nessuna. Può sembrare un’ovvietà, detta cosi; eppure la maggior parte degli esseri umani continua a sognare una vita priva di dolore.
Moltissimi pretendono, sperano e/o credono fermamente anche in una vita priva della morte. Qualcuno che non vuol avere troppi problemi filosofici, teologici e via dicendo nel qui e ora, promette una vita priva di dolore e libera dalla morte, se non in questa vita, in un’altra, più avanti, alla prossima area di servizio.
Ora, io l’ho già detto, non ho risposte, non ne ho. Però mi capita di guardarmi un po’attorno, ogni tanto, e l’esempio che non mi ha mai deluso quando comincio a farmi molte domande è sempre quello che trovo in Natura.
Io che non ne so nulla mi affido alla Maestra per eccellenza, insomma. In Natura esiste il dolore ed esiste la morte. Questa non è una convinzione; questa è una certezza. Se esistono forse servono a qualcosa, perché in Natura nulla è fine a se stesso, nulla. Questa invece è una convinzione corroborata dai fatti.
Ora, noi sappiamo che l’essere umano si distingue dal resto delle specie che esistono in Natura perché è un essere consapevole… o meglio, così dovrebbe essere. E nella nostra consapevolezza in quanto esseri umani, dovremmo riuscire ad avere ben chiara la situazione; intendo dire che noi sappiamo pensarci, quindi sappiamo anche collocarci mentalmente, oltre che fisicamente, nel contesto che ci ospita, giusto?
Se è così allora sappiamo leggere noi stessi in relazione alla natura che ci è propria, giusto? O perlomeno così dovrebbe essere, o così dovremmo tendere a fare, no? Se è così, allora noi ci rendiamo conto di ciò che più si confà a noi stessi, alla nostra natura di esseri umani, no?
E allora mi chiedo: se le dinamiche proprie della natura umana sono equiparabili alle dinamiche che possiamo osservare in Natura, in quanto anche noi siamo Natura e la Natura è il contesto che ci ospita, perché continuiamo a pretendere di “snaturarci” al punto tale da essere esonerati dal dolore e dalla morte?
Poniamo pure che esista un modo per vivere senza soffrire mai e senza morire mai; perché nessuno mi ha mai messa al corrente sul metodo concreto e reale che consente di pigiare lo start per raggiungere tale ambita condizione? Tutti lì a inventare teorie a costruire credi e dogmi e mondi lontani da quello terreno pur di sfuggire alla realtà delle cose!
Ma mi chiedo: ma questo mondo fa davvero così schifo da voler raggiungere tutti un mondo altro e diverso? E se fa a tutti schifo, perché fa schifo?
Non è che, magari, magari fa schifo a molti perché son quelli che in attesa di un aldilà migliore se ne fregano delle responsabilità che hanno nei confronti del mondo qui e adesso? Come dire che non muovono un dito per rendere le loro esistenze degne di essere vissute, perché tanto poi devono morire e se tutto va secondo i piani se ne vanno in paradiso… forse?
E magari, visto che il paradiso non è qui, tanto vale che le nostre innumerevoli stupidità ed egoismi continuino indisturbati a crearci l’inferno attorno, rendendo il dolore e la morte più forti e potenti di quel che la Natura inevitabilmente e giustamente continuerebbe a perpetrare creando e mantenendo equilibrio.
Esiste un dolore inevitabile e dovremmo imparare a conviverci, perché fa parte della nostra condizione, della nostra natura. Dovremmo imparare a conviverci serenamente, liberandoci dalla paura e smettendola di raccontarci balle più o meno rassicuranti.
Un tempo si conosceva la morte e non si rinnegava il dolore; la gente ci conviveva e lo faceva con estrema dignità. Fino a qualche generazione fa non si nascondeva il dolore nelle case di cura, negli ospizi e negli ospedali, delegandone la gestione agli “addetti ai lavori”.
Molti morivano in casa e lo facevano con una dignità e una serenità che, mi spiace dirlo, ma oggi in molti casi a me pare che abbiamo perso.
Se poi ti scappa di dire a qualcuno che imparare a convivere e ad affrontare il dolore è un modo per crescere, il minimo che quel qualcuno può rispondere è che hai tendenze masochiste. Ma io mi chiedo, a proposito delle solite domande, non è meglio abituarsi un po’ alla volta al dolore e alla morte affrontandoli mentre si vive, che morire di dolore quando la vita ce li proporrà sulla nostra strada?
Perché è inevitabile che questo accada, anche per quelli che sanno raccontarsi e raccontare balle meglio degli altri. Nessuno può godere di privilegi tali da tirarsene fuori, mi pare. Ok, ok toccatevi pure se volete; ne avete la facoltà.
A me non pare così tragica sta cosa da doverla rinnegare e nascondere ad oltranza. In Natura non accade mai: In Natura si nasce soffrendo e si muore vivendo. Così dovrebbe essere. E lo dico perché spesso noi esseri umani moriamo prima di essere morti, perché abbiamo troppa paura di soffrire e quindi di vivere. E questo è il dolore che ci creiamo da soli, quello che potremmo benissimo evitarci e che invece coltiviamo con tenacia e determinazione nella terra fertile delle nostre paure. Questo è un dolore innaturale, gratuito, inutile e tuttavia tipicamente umano. Manchiamo dell’ immaginazione necessaria a renderci sereni, abbiamo bisogno di riti, dogmi, rassicurazioni, mi sa. Penso spesso che fra tutte le specie, in tal senso, saremo pure la più evoluta, ma pure la più sfigata.

Goldrake e Mazinga coltivavano il dubbio; forse ne sono certa!

Personalmente credo di avere la vocazione dell’ottimista disillusa. Di mio sono sempre stata una che ci crede, ma non troppo, a volte non abbastanza… dopo una certa età forse non ci credo per niente, non davvero…così, per scaramanzia, perché non si sa mai. Crederci troppo è tanto poco saggio come non crederci per niente. Mi barcameno nella via di mezzo, quella che spesso smarrisco addentrandomi nelle selve oscure, ma, in fin dei conti, chi non si perde non sa poi trovare soddisfazione nel ritrovarsi. A me sta bene così. Le certezze mi creano diffidenza, mentre il dubbio mi sta simpatico.

E allora ci sguazzo, nei dubbi, forse troppo, ma cerco di non darlo a vedere, che un minimo di senso di sicurezza è necessario farlo passare al prossimo, altrimenti ti prendono poco sul serio; nel peggiore dei casi potrebbero prendermi per matta. Non che mi creerebbe particolari scompensi se i miei simili mi prendessero per matta; sarebbe la conferma che sono sulla strada giusta, presumo. Tutto ciò che esula dalla regola prestabilita mi ha sempre trasmesso un’innata simpatia. Lo so, c’è un non so che di sovversivo in tutto ciò, ma non ci posso fare niente.

Anche in Natura, per dire, quelli che a noi che La osserviamo sembrano essere degli “errori”, delle dissonanze, degli strappi alla regola, in definitiva, se ben ci si pensa, non sono altro che Natura, e questo è tutto. Ma noi abbiamo un cervello che per funzionare ha bisogno di classificare, di riordinare, di prestabilire dei limiti entro i quali far girare gli impulsi da una sinapsi a un neurone e da un neurone alla sinapsi successiva, e allora, quando ci capita che qualche elemento nel nostro vivere esula dall’ordinato e dall’ordinario, la crisi si affaccia beffarda.

La paura; è la paura la prima sensazione che si fa strada quando dobbiamo affrontare qualche cosa che ci è ignoto, che esula dai confini prestabiliti che noi, o qualcun altro per noi, abbiamo predisposto. Non intendo il tipo di paura buono, quella che istintivamente ci mette nelle condizioni per evitare un pericolo incombente e reale. Parlo della paura subdola e strisciante, invisibile; quella che ti fa lavorare di fantasia, elaborando complessissime elucubrazioni (le famose seghe mentali) castrando sul nascere ogni nuova idea o visione delle cose. Se poi si ha la sfiga di incappare in consimili che la paura se la coltivano aggrappandosi alle solite e noiose certezze inconfutabili che hanno sentore di dogmi indiscutibili, allora il pantano si fa davvero profondo, melmoso e soffocante.

Ecco, dopo attenta analisi, agli albori della mia propensione all’incontenibile, problematica e patetica logorrea imbevuta di inestricabili dubbi amletici, ho concluso che questo tipo di paura è  estremamente dannosa per il buon cammino in questa valle da molti ritenuta oscura, ma per me poi nemmeno tanto oscura, perché non porta a nessun risultato buono e a nessun risultato cattivo. Intendo dire che limita la crescita, la sperimentazione, che è causa di involuzione, di staticità, di regressione. Tutte ròbe che non mi interessano.

E allora da un po’ di anni ho deciso che sta ròba c’era un solo modo per levarmela di torno. Memore delle innumerevoli puntate delle più blasonate serie di cartoon anni ottanta dove il bene soffre molto e a lungo, ma alla fine sconfigge SEMPRE il male, ad un certo punto, immersa in quello stato di totale e sublime immedesimazione in fiabe, storie, e favole che si sperimenta (purtroppo) solo in quella particolare e meravigliosa età infantile, ho deciso che sarei stata l’eroina della mia esistenza, che mi sarei messa la maschera dell’Uomo Tigre, che mi sarei infilata nella testa di Mazinga Zeta e mi sarei messa ai comandi, che sarei diventata una dea sulla scia delle avventure di Pollon, che mi sarei innamorata di un cane come Spank e che avrei affrontato a neuroni nudi e una volta per tutte l’avversario numero uno, ovvero ME Medesima con tutti i miei limiti e le paure annesse e connesse.

Ok,ok, può sembrare patetico… forse perché siamo adulti e per un adulto lo sembra. Ma se ci si pensa, non è poi così ridicola sta cosa.

Non sto qui a elencare le battaglie perse, i momenti in cui il colpo segreto dell’avversario sembrava proprio avere la meglio, i patimenti e gli sbattimenti per arrivare ad usare le lame rotanti nel modo giusto e al momento giusto, le angherie subite da parte del o della, o dei cattivi, sporchi bastardi di turno. Tutti sanno benissimo in che cosa consiste il peggio di un’esistenza umana, se non altro perché ognuno conosce il suo personalissimo peggio e a tutti pare che a nessuno possa capitare un peggio peggiore del proprio, quindi, onde evitare di cadere nel patetico alla Dolce Remì, sorvoliamo.

Mi interessa invece parlare di quando alla fine di inenarrabili puntate che duravano spesso anche degli anni accumulati ad altri anni durante i quali le disavventure sembravano non avere mai fine, alla fine arrivavo alla vittoria, ovvero alla sconfitta del nemico con la conseguente salvezza del mondo intero… del mio mondo, ovviamente.

A salvare il resto del mondo, quello che ci accoglie tutti, ci vogliono moltissime altre puntate e moltissimi altri sbattimenti, inenarrabili fatiche e patimenti da parte di moltitudini di guerrieri che combattono il buio, ovvero l’ignoranza e la paura. Ecco, per salvare l’umanità da se stessa, ci vorrebbero tutte le storie, tutti i libri e tutti i film che le menti umane hanno prodotto nei secoli (parlo di quelli che valga davvero la pena vedere e leggere); una ròba stile Guerra dei Mondi, per capirci… una ròba alla Tolkyen… ma molto più epica, cruenta, estesa e probabilmente spaventosa e inenarrabile… e forse ancora non basterebbe.

Qualcuno ci sta lavorando e nel mio piccolo, con i limiti che sono propri del mio personaggio, io pure cerco di fare il mio. Salvo il mio mondo dalle certezze inconfutabili per salvare il resto del mondo dalla paura. E’ così che farebbe Goldrake, forse!

Ma quello che davvero volevo dire con questo delirio partito sul serioso, ridicolo andante e sfociato nel nostalgico comix con moto, è che nel momento stesso in cui ho deciso che io dovevo trasformarmi nella super eroina di turno e combattere, oltre ai missili rotanti, mi sono procurata altre armi ed è stato allora che ho cominciato a divertirmi davvero. Tutto il resto è preambolo, e anche piuttosto noioso.

Perché è così che va e Capitan Harlock insegna; se smetti di temere la paura, allora la paura smette di corteggiarti e tu smetti di sbavare litrate di insofferenza sui cuscini gommosi della noia. L’arma migliore in assoluto per garantirsi delle piccole, a volte invisibili, ma non per questo meno significative, vittorie quotidiane è la Conoscenza.

Esistono guerrieri che hanno la vocazione di insegnare in modo efficace e sublime l’arte di questa guerra; lo fanno nel loro modo specialissimo e così sanno sconfiggere il buio e la paura. Io ne ho conosciuti alcuni; sono stati pochi, ma fondamentali. A loro devo la parte più buona del gusto che oggi ha la mia vita. A loro va la mia gratitudine. E un po’ di gratitudine va anche a quelle menti che a suo tempo hanno creato i cartoon anni 80 ed a tutti i creativi che colorano il mondo di intelligenza e Bellezza.

Curare l’inquietudine

Alla fine siamo tutti umani, in modo imperfetto e irrazionale; sono le esperienze che ci capita di vivere, quelle che ci cadono addosso nostro malgrado a mettere in evidenza questa verità. Magari si tende a pensare che siamo in grado di far fronte a tutto con la dovuta razionalità e capacità di discernimento; può darsi, forse il più delle volte i bagagli accumulati ci permettono di reagire alle circostanze della vita in modo fermo, ragionato e consapevole. Eppure esistono mondi dentro di noi, dentro tutti noi, che non conosciamo abbastanza, mai abbastanza, per metterci al sicuro da noi stessi. E questo un po’ spaventa ed allora si possono seguire due strade: una è quella di continuare ad ignorare una parte di noi e l’altra è quella di affrontarla. Nella maggior parte dei casi, un po’ perchè è più comodo e un po’ perché entrare nei labirinti personali è il viaggio che fa più paura in assoluto, non ci si fa caso, si cerca di non parlarne, di non focalizzarsi mai su quei segnali impercettibili che ogni tanto ci mandano dei messaggi reconditi, il più delle volte sottili, difficilmente interpretabili se filtrati da un ragionamento razionale. Eppure questi mondi ci condizionano e condizionano chi ci sta vicino, che ne siamo consapevoli o meno. Ed il condizionamento è spesso sconcertante; personalmente lo trovo curioso, proprio perché è difficilmente collocabile entro una sfera di rassicuranti spiegazioni razionali. Il punto è che personalmente faccio fatica ad ignorare ciò che non capisco. Non ci posso fare niente; se incappo in qualche cosa che non riesco a definire, perché ho dei limiti, perché non ho gli strumenti per poterlo sondare, rendere comprensibile alla mia scarsa schiera di neuroni affannati, allora m’inquieto e m’incaponisco. E oltre a ciò che mi è proprio nel senso più intimo della mia condizione umana, troppo umana, moltissimi altri fenomeni che osservo in Natura mi risultano incomprensibili e proprio per questo mi affascinano e mi coinvolgono. La conseguenza di ciò è che vivo in uno stato di perenne inquietudine. Ed ho provato a liberarmene, a fare l’indifferente, ma non funziona. Questa è un’altra di quelle cose inspiegabili che mi rende a sua volta inquieta. A volte penso che se tutte le menti del mondo fossero in grado di connettersi avremmo le risposte alle nostre domande; a tutte le nostre domande, intendo. Penso che se fossimo in grado di condividere in modo chiaro ed inequivocabile le nostre esperienze e le nostre conoscenze, potremmo arrivare tutti ad un livello di consapevolezza che ci permetterebbe di uscire dalla nostra condizione misera. Misera perchè limitata e limitante. Ecco, quando penso questo mi viene da guardarmi attorno e chiedermi se ci sapremo mai creare un modo per poter arrivare a tanto, un giorno. E poi mi vien da dire che, forse, una bozza di questo strumento è già nelle nostre mani; voglio dire che abbiamo già uno strumento che consente una condivisione di conoscenza pressoché illimitato, se ci pensiamo. Che cos’è la Rete se non questo? E allora, mi chiedo, perché non siamo in grado di giungere a questo livello di consapevolezza che ci liberi finalmente dalla nostra condizione limitante? La risposta credo stia nel fatto, a parer mio, indiscutibile che per poter arrivare ad un obiettivo è necessario prima riconoscerlo e poi perseguirlo con consapevolezza. Paradossalmente non possiamo essere consapevoli perchè non siamo consapevoli di volerlo essere. Non ci mancano gli strumenti, ci manca la consapevolezza di dover tendere tutti a un livello evolutivo superiore. E allora non ci rimane che provare ad arrancare quotidianamente in questo marasma di dubbi e paure, finché le paure non verranno soverchiate dalla Conoscenza e sempre più umani smetteranno di essere troppo umani. Ed è per questo che la Conoscenza non è nulla se non è condivisa e condivisibile. E allora non mi si venga a dire che quando una persona apre un blog lo fa solo perchè si annoia; non è così. Le persone aprono un blog perché hanno qualcosa da dire, anche in merito a quei mondi reconditi che nel loro quotidiano non riescono ad esprimere o a definire. Un blog non è uno sparare cretinate a zero “tanto per esserci”; questo è forse ciò che accade più sovente nei social meno impegnativi e che lasciano uno spazio limitato al ragionamento, perchè fondati su reazioni emotive più o meno pilotate. Senza voler generalizzare, quando mi accosto ai social di questo tipo la sensazione che ho è la stessa che ho provato guardando film come “Il nome della Rosa” o “Giordano Bruno”; la gente non ha mai veramente smesso di mettere al rogo ciò che sente diverso e quindi minaccioso dal proprio rassicurante vivere quotidiano. La Rete è uno strumento formidabile per le potenzialità in termini di condivisione di conoscenze; usarla per tentare di estraniarsi dal reale anziché per aiutarci reciprocamente a capirlo è un modo stupido di usare uno strumento preziosissimo. E finché la stupidità dilaga e mette in ombra l’intelligenza che, anche se spesso si fa fatica a crederci, è potenzialmente di tutti, perderemo l’occasione per migliorarci. Confido in quelle persone che scrivono e pubblicano immagini e pensiero pulito (nel senso che non è zavorrato da paure e fobie che lo rendono inutile e spesso gratuitamente offensivo del “diverso”) con il fine di condividere conoscenza. Sono molte e mi si permetta di dire che in un certo senso, io a queste persone sono estremamente grata.

Giovannin senza paura

Da:Fiabe italiane di Italo Calvino

C’era una volta un ragazzetto chiamato Giovannin senza paura, perché non aveva paura di niente. Girava per il mondo e capitò a una locanda a chiedere alloggio.   – Qui posto non ce n’è, – disse il padrone, – ma se non hai paura ti mando in un palazzo.

– Perché dovrei aver paura?

– Perché ci si sente, e nessuno ne è potuto uscire altro che morto. La mattina ci va la Compagnia con la bara a prendere chi ha avuto il coraggio di passarci la notte.

Figuratevi Giovannino! Si portò un lume, una bottiglia e una salsiccia, e andò. A mezzanotte mangiava seduto a tavola, quando dalla cappa del camino sentì una voce: – Butto?

E Giovannino rispose: – E butta!

Dal camino cascò giù una gamba d’uomo. Giovannino bevve un bicchier di vino.

Poi la voce disse ancora: – Butto?

E Giovannino: – E butta! – e venne giù un’altra gamba. Giovannino addentò la salsiccia.

– Butto?

– E butta! – e viene giù un braccio. Giovannino si mise a fischiettare. – Butto? – E butta! – un altro braccio.

– Butto?

– Butta! E cascò un busto che si riappiccicò alle gambe e alle braccia, e restò un uomo in piedi senza testa.

– Butto?

– Butta! Cascò la testa e saltò in cima al busto. Era un omone gigantesco, e Giovannino alzò il bicchiere e disse: – Alla salute!

L’omone disse: – Piglia il lume e vieni.

Giovannino prese il lume ma non si mosse.

– Passa avanti! – disse l’uomo.

Passa tu, – disse Giovannino.

– Tu! – disse l’uomo.

– Tu!- Disse Giovannino.

Allora l’uomo passò lui e una stanza dopo l’altra traversò il palazzo, con Giovannino dietro che faceva lume. In un sottoscala c’era una porticina.

– Apri! – disse l’uomo a Giovannino.

E Giovannino: – Apri tu!

E l’uomo aperse con una spallata. C’era una scaletta a chiocciola.

– Scendi, – disse l’uomo.

– Scendi prima tu, – disse Giovannino.

Scesero in un sotterraneo, e l’uomo indicò una lastra in terra.

– Alzala!

– Alzala tu! – disse Giovannino, e l’uomo la sollevò come fosse stata una pietruzza. Sotto c’erano tre marmitte d’oro.

– Portale su! – disse l’uomo.

– Portale su tu! – disse Giovannino.

E l’uomo se le portò su una per volta.

Quando furono di nuovo nella sala del camino, l’uomo disse: – Giovannino, l’incanto è rotto! – Gli si staccò una gamba e scalciò via, su per il camino. – Di queste marmitte una è per te, – e gli si staccò un braccio e s’arrampicò per il camino. – Un’altra è per la Compagnia che ti verrà a prendere credendoti morto, – e gli si staccò anche l’altro braccio e inseguì il primo. – La terza è per il primo povero che passa, – gli si staccò l’altra gamba e rimase seduto per terra. – Il palazzo tienitelo pure tu, – e gli si staccò il busto e rimase solo la testa posata in terra. – Perché dei padroni di questo palazzo, è perduta per sempre ormai la stirpe, – e la testa si sollevò e salì per la cappa del camino.

Appena schiarì il cielo, si sentì un canto: Miserere mei, miserere mei, ed era la Compagnia con la bara che veniva a prendere Giovannino morto. E lo vedono alla finestra che fumava la pipa.

Giovannin senza paura con quelle monete d’oro fu ricco e abitò felice nel palazzo. Finché un giorno non gli successe che, voltandosi, vide la sua ombra e se ne spaventò tanto che morì.

La magia delle fiabe sta in ciò che la mente può percepire fra una parola detta e l’altra. Giovannin senza paura è una fiaba popolare antica e verrebbe da dire subito che già nel titolo arriva dritta al nocciolo della questione: la paura dominata dal coraggio del protagonista. E non si parla di una paura qualsiasi, ma della paura peggiore, della paura dell’ignoto, ovvero della morte.

Ora, proviamo a immedesimarci in un bambino che sta ascoltando la storia dalla voce di una adulto, seduto magari di fronte ad un camino, o alla luce rassicurante di una lmpada e accoccolato al sicuro all’interno della propria casa.

Il racconto si svolge nell’arco di una notte e Giovannino si trova in un posto a lui sconosciuto e che nasconde mille incognite. La notte nasconde ciò che non si conosce, ciò che si teme perché non è reso visibile dalla luce.

Proviamo a immaginarci la voce del narratore che recita le parole della fiaba, proviamo a sentire il ritmo simile ad una filastrocca che cadenza il narrare, il botta e risposta fra Giovannino e un essere che arriva da quel camino che funge da collegamento con il contesto sicuro dell’interno di una casa e l’esterno oscuro e notturno.

Dal camino esce ciò che non si conosce, ciò che fa paura. Giovannino accoglie con coraggio quell’essere spaventoso che si presenta smembrato ed attende con calma, mangiando e bevendo, quindi facendosi più forte, che ogni pezzo di quello strano essere vada al suo posto e che si riveli nella sua interezza, per poterlo osservare per quello che realmente è e rapportarsi con lui.

Sostanzialmente Giovannino attende di conoscere tutti gli elementi prima di agire. E quando l’omone ormai visibile in tutta la sua interezza tenta di intimidirlo dandogli degli ordini, lui continua a reagire con sicurezza, rispondendogli a tono, per nulla impressionato dalla situazione. Giovannino continua a tenere la situazione sotto controllo, è sicuro di sè e non si fa intimidire.

Utilizza il lume per vederci meglio, per rischiarare quella notte che non gli permette di vedere le cose per quelle che realmente sono, per conoscere a fondo la situazione e per non commettere passi falsi. Si addentra nei luoghi che l’omone gli indica, ma facendosi precedere, quindi agisce, ma con cautela, con la dovuta prudenza.

E questo suo modo di affrontare la situazione lo porta alla ricompensa delle tre pentole d’oro. L’omone quindi non ha più motivo di essere, perché Giovannino ha fatto cadere l’incantesimo. La paura alimentava l’incantesimo. 

E così come era arrivato, pezzo dopo pezzo, l’omone svanisce attraverso il camino, venendo risucchiato da quell’ignoto non più spaventoso, perché ormai sconfitto dalla conoscenza acquisita da Giovannino. Quando la Compagnia viene a voler prendere il morto, Giovannino si affaccia senza timore alla finestra e accoglie il giorno.

Si affaccia verso l’esterno e forte delle ricchezze acquisite durante la notte, si fuma beatamente la pipa, proprio come forse fa un nonno o un papà, quindi una persona adulta, dopo aver raccontato una bella fiaba al suo nipotino o al suo bambino.

Giovannino è diventato una persona adulta perchè è stato prudente, coraggioso, abbastanza calmo e sicuro di sè da saper sconfiggere la paura di ciò che non conosceva.