Il coraggio

Ci vuole molto coraggio per vivere la felicità, quando questa si presenta alla porta e ancora non la si era mai potuta veramente conoscere prima.

Pare abbia un volto terrificante, tanto spaventoso da renderla irriconoscibile; e così c’è chi preferisce tenere la porta chiusa, e rimanere rintanato, al sicuro, entro le solite cupe quattro mura grondanti  di tristezza.

Mentre fuori il sole fa scoppiare le gemme di gioia, e tutto è imprevedibile e meraviglioso… e trovo strano che solo in pochi, di tutta questa gioia, se ne curino.

 

16 pensieri su “Il coraggio

  1. Il fatto è che la felicità, come condizione, non esiste. Esistono momenti di allegria, che non bisognerebbe negarsi, dato che non si ripresenteranno più. Invece tutti, chissà perché, rinunciano alla gioia in attesa di un’irraggiungibile stabile felicità, per il timore di perdere qualcosa di acquisito, che però non è gratificante a sufficienza. Insomma, forse avevano ragione gli hippies, anche nella versione gucciniana dei Nomadi (Un figlio dei fiori non pensa al domani)

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    1. La felicità è negli attimi che sono felici mentre sono vissuti; non è nei ricordi, e nemmeno nei progetti. Credo che gli hippies, e forse anche i Nomadi, presero spunto da qualche religione orientale; andavano molto di moda all’epoca. Poi vennero i newageisti e cercarono di imitarne il senso; eppure non penso che la felicità sia nelle imitazioni di vite o di idee altre, di esistenze più o meno lontane rispetto alla propria. E comunque, Guido, prima di parlare di felicità, c’è bisogno di parlare di coraggio di viverla, perché altrimenti quando questa si presenta non le si lascia nemmeno quell’attimo effimero che sarebbe disposta a regalarci. Pare che le esistenze come ce le siamo costruite in quest’epoca siano talmente avare di attimi di felicità, che quando questa ci sfiora, la scacciamo come fosse il volo di una mosca molesta, anziché viverla e godercela.

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    1. Mio caro Melo, aprile e maggio non hanno colpe e nemmeno responsabilità per quanto riguarda le nostre altalenanti condizioni emotive; l’ho capito in anni di meditabonda e malinconica osservazione degli sbalzi umorali che i cambi di stagione si divertono a imprimere nel mio, appunto, altalenante stato emotivo. Il desiderio è una condizione che mi vibra bene, perché riguarda in modo stretto l’attimo presente, mentre la memoria mi annoia, perché mi risulta meno reale di un lontanissimo refolo di vento. Le radici mi interessano; sono sempre vive e presenti, anche quando sono morte… mutano in altro e danno nuova vita, continuamente. E son felice che anche tu sia vivo e presente :), Melo.

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        1. Ho persino pensato, a volte, che vi è una vera e propria educazione al brutto e alla sofferenza; se si pensa che c’è chi pensa che è solo attraverso il sacrificio ed il dolore, e nei casi estremi, attraverso il martirio, che si può arrivare a dare un senso alla propria esistenza… forse un po’ di responsabilità ce l’hanno pure questo tipo di dottrine. E senza dubbio anche il cattivo gusto, la totale mancanza di senso del bello che nemmeno più sappiamo che cosa sia, mentre l’orrido viene insegnato come fosse arte. Insomma, ci stiamo imbruttendo l’anima costruendoci tutt’attorno il peggio che la mente umana possa produrre in termini di estetica. Basti pensare a certe case, edifici, interi quartieri… paesaggi snaturati, deturpati. Per forza ci abituiamo a pensare in nero, quando tutto ciò che vediamo è nero. In Natura non esiste il brutto; è una prerogativa nostra, umana, quella di promuoverne le caratteristiche… e fa tristezza pensare che ci dedichiamo a questo, quando di talenti ben più meritevoli saremmo tutti dotati; basti guardare all’arte del passato per rendersi conto. Il contemporaneo, personalmente, ritengo che porti alla depressione. Pare costruito, pensato appositamente per questo fine. E quando uno è depresso, è difficile che trovi il coraggio di vivere.

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          1. Hm… che noi ne siamo dotati o meno in partenza, non cambia le cose; concordo con te: siamo in costruzione e per essere “solidi” occorrerebbero gli elementi adatti, smussati al meglio, posati secondo una logica che ne determini la stabilità e costituiti dalla chimica corretta. Abbiamo un cantiere aperto, dentro, è vero, e se usiamo materiale di scarto per costruirci, non possiamo poi pretendere di crescere. E ne abbiamo responsabilità anche per quelli che verranno dopo di noi. Non era mia intenzione sfondare porte, davvero :).

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          2. Credo che il contrario di ignoranza sia conoscenza. Credo anche che non sempre chi conosce è anche consapevole. Ci sono molti intellettuali che non sono minimamente consapevoli, eppure non sono ignoranti. Un intellettuale inconsapevole può essere particolarmente dannoso, tra l’altro, perché la conoscenza è potere e dare in mano il potere a chi non è consapevole, equivale a dare in mano un’arma ad un bambino. E poi ci sono dei semi analfabeti ai quali l’esperienza di vita ha donato una consapevolezza tale da poterli definire tranquillamente dei veri “saggi”. Nessun saggio può essere tale se non è consapevole. La conoscenza agevola la consapevolezza e l’ignoranza spesso può coltivare l’inconsapevolezza, ma le regole in tale campo sono indefinibili. Però concordo con te sul fatto che la consapevolezza implica un senso di responsabilità che altrimenti, molto probabilmente, non potrebbe nascere e crescere.

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          3. il discorso si sta ampliando a vista d’occhio 😀
            hai ragione, infatti conoscere e sapere non sono affatto sinonimi; l’intellettuale di solito SA ma non CONOSCE. La conoscenza implica il diretto esperire, ma l’intellettuale cui alludi, più precisamente il pedante, fa volentieri confusione con l’erudizione. E non c’è peggior ignorante di chi è convinto che sapere e conoscere sia la stessa cosa. Di più, alla radice di ogni ignoranza c’è l’ignoranza di se, di ciò che è la nostra ed universale essenza: ovvero la Coscienza
            delicati e complessi questi temi…

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          4. Forse la questione è più semplice di quel che sembra; basta stare attenti a dare alle parole il giusto significato. 🙂 Ecco, si potrebbe dire che l’attenzione in tal senso solitamente evita malintesi e confusione. Penso che, socraticamente parlando, l’intellettuale che sa di non sapere è un intellettuale consapevole, quindi meno pericoloso, perché sufficientemente umile da riconoscere la propria condizione. Chi non sa di non sapere mi fa un po’ più paura, ecco.

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  2. Penso che il primo passo consista nel non temere i cambiamenti, confrontarsi con le proposte della vita. E ci vuole coraggio. Spesso è il cambiamento che ci fa paura, proprio quel cambiamento che ci potrebbe far conoscere attimi di felicità. (Io non credo nella felicità come condizione permanente, ci sono attimi perfetti, ed è già molto).

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    1. Forse è una questione di percezione. Di come riusciamo a percepire il mondo, intendo. Se si sanno cogliere i dettagli mirabolanti che offre la Natura, ad esempio, tutto è più facile. Anche sentirsi più felici diventa più facile. Ma prima di arrivare a questo, forse occorre togliersi da davanti agli occhi le brutture del mondo, quelle che in parte ci siamo costruiti da soli e che in parte ci siamo costruiti collettivamente; la bellezza rende leggeri e dà coraggio, solo è necessario imparare a vederla, amarla e riproporla dovunque è stata sostituita dal niente, o dall’orrido. E’ questo il cambiamento salvifico; o quantomeno, questa è una strada buona da percorrere, a parer mio. Ci vuole coraggio, ma una volta aperta la porta, non si tornerebbe più a rinchiudersi.

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