Il coraggio

Ci vuole molto coraggio per vivere la felicità, quando questa si presenta alla porta e ancora non la si era mai potuta veramente conoscere prima.

Pare abbia un volto terrificante, tanto spaventoso da renderla irriconoscibile; e così c’è chi preferisce tenere la porta chiusa, e rimanere rintanato, al sicuro, entro le solite cupe quattro mura grondanti  di tristezza.

Mentre fuori il sole fa scoppiare le gemme di gioia, e tutto è imprevedibile e meraviglioso… e trovo strano che solo in pochi, di tutta questa gioia, se ne curino.

 

Goldrake e Mazinga coltivavano il dubbio; forse ne sono certa!

Personalmente credo di avere la vocazione dell’ottimista disillusa. Di mio sono sempre stata una che ci crede, ma non troppo, a volte non abbastanza… dopo una certa età forse non ci credo per niente, non davvero…così, per scaramanzia, perché non si sa mai. Crederci troppo è tanto poco saggio come non crederci per niente. Mi barcameno nella via di mezzo, quella che spesso smarrisco addentrandomi nelle selve oscure, ma, in fin dei conti, chi non si perde non sa poi trovare soddisfazione nel ritrovarsi. A me sta bene così. Le certezze mi creano diffidenza, mentre il dubbio mi sta simpatico.

E allora ci sguazzo, nei dubbi, forse troppo, ma cerco di non darlo a vedere, che un minimo di senso di sicurezza è necessario farlo passare al prossimo, altrimenti ti prendono poco sul serio; nel peggiore dei casi potrebbero prendermi per matta. Non che mi creerebbe particolari scompensi se i miei simili mi prendessero per matta; sarebbe la conferma che sono sulla strada giusta, presumo. Tutto ciò che esula dalla regola prestabilita mi ha sempre trasmesso un’innata simpatia. Lo so, c’è un non so che di sovversivo in tutto ciò, ma non ci posso fare niente.

Anche in Natura, per dire, quelli che a noi che La osserviamo sembrano essere degli “errori”, delle dissonanze, degli strappi alla regola, in definitiva, se ben ci si pensa, non sono altro che Natura, e questo è tutto. Ma noi abbiamo un cervello che per funzionare ha bisogno di classificare, di riordinare, di prestabilire dei limiti entro i quali far girare gli impulsi da una sinapsi a un neurone e da un neurone alla sinapsi successiva, e allora, quando ci capita che qualche elemento nel nostro vivere esula dall’ordinato e dall’ordinario, la crisi si affaccia beffarda.

La paura; è la paura la prima sensazione che si fa strada quando dobbiamo affrontare qualche cosa che ci è ignoto, che esula dai confini prestabiliti che noi, o qualcun altro per noi, abbiamo predisposto. Non intendo il tipo di paura buono, quella che istintivamente ci mette nelle condizioni per evitare un pericolo incombente e reale. Parlo della paura subdola e strisciante, invisibile; quella che ti fa lavorare di fantasia, elaborando complessissime elucubrazioni (le famose seghe mentali) castrando sul nascere ogni nuova idea o visione delle cose. Se poi si ha la sfiga di incappare in consimili che la paura se la coltivano aggrappandosi alle solite e noiose certezze inconfutabili che hanno sentore di dogmi indiscutibili, allora il pantano si fa davvero profondo, melmoso e soffocante.

Ecco, dopo attenta analisi, agli albori della mia propensione all’incontenibile, problematica e patetica logorrea imbevuta di inestricabili dubbi amletici, ho concluso che questo tipo di paura è  estremamente dannosa per il buon cammino in questa valle da molti ritenuta oscura, ma per me poi nemmeno tanto oscura, perché non porta a nessun risultato buono e a nessun risultato cattivo. Intendo dire che limita la crescita, la sperimentazione, che è causa di involuzione, di staticità, di regressione. Tutte ròbe che non mi interessano.

E allora da un po’ di anni ho deciso che sta ròba c’era un solo modo per levarmela di torno. Memore delle innumerevoli puntate delle più blasonate serie di cartoon anni ottanta dove il bene soffre molto e a lungo, ma alla fine sconfigge SEMPRE il male, ad un certo punto, immersa in quello stato di totale e sublime immedesimazione in fiabe, storie, e favole che si sperimenta (purtroppo) solo in quella particolare e meravigliosa età infantile, ho deciso che sarei stata l’eroina della mia esistenza, che mi sarei messa la maschera dell’Uomo Tigre, che mi sarei infilata nella testa di Mazinga Zeta e mi sarei messa ai comandi, che sarei diventata una dea sulla scia delle avventure di Pollon, che mi sarei innamorata di un cane come Spank e che avrei affrontato a neuroni nudi e una volta per tutte l’avversario numero uno, ovvero ME Medesima con tutti i miei limiti e le paure annesse e connesse.

Ok,ok, può sembrare patetico… forse perché siamo adulti e per un adulto lo sembra. Ma se ci si pensa, non è poi così ridicola sta cosa.

Non sto qui a elencare le battaglie perse, i momenti in cui il colpo segreto dell’avversario sembrava proprio avere la meglio, i patimenti e gli sbattimenti per arrivare ad usare le lame rotanti nel modo giusto e al momento giusto, le angherie subite da parte del o della, o dei cattivi, sporchi bastardi di turno. Tutti sanno benissimo in che cosa consiste il peggio di un’esistenza umana, se non altro perché ognuno conosce il suo personalissimo peggio e a tutti pare che a nessuno possa capitare un peggio peggiore del proprio, quindi, onde evitare di cadere nel patetico alla Dolce Remì, sorvoliamo.

Mi interessa invece parlare di quando alla fine di inenarrabili puntate che duravano spesso anche degli anni accumulati ad altri anni durante i quali le disavventure sembravano non avere mai fine, alla fine arrivavo alla vittoria, ovvero alla sconfitta del nemico con la conseguente salvezza del mondo intero… del mio mondo, ovviamente.

A salvare il resto del mondo, quello che ci accoglie tutti, ci vogliono moltissime altre puntate e moltissimi altri sbattimenti, inenarrabili fatiche e patimenti da parte di moltitudini di guerrieri che combattono il buio, ovvero l’ignoranza e la paura. Ecco, per salvare l’umanità da se stessa, ci vorrebbero tutte le storie, tutti i libri e tutti i film che le menti umane hanno prodotto nei secoli (parlo di quelli che valga davvero la pena vedere e leggere); una ròba stile Guerra dei Mondi, per capirci… una ròba alla Tolkyen… ma molto più epica, cruenta, estesa e probabilmente spaventosa e inenarrabile… e forse ancora non basterebbe.

Qualcuno ci sta lavorando e nel mio piccolo, con i limiti che sono propri del mio personaggio, io pure cerco di fare il mio. Salvo il mio mondo dalle certezze inconfutabili per salvare il resto del mondo dalla paura. E’ così che farebbe Goldrake, forse!

Ma quello che davvero volevo dire con questo delirio partito sul serioso, ridicolo andante e sfociato nel nostalgico comix con moto, è che nel momento stesso in cui ho deciso che io dovevo trasformarmi nella super eroina di turno e combattere, oltre ai missili rotanti, mi sono procurata altre armi ed è stato allora che ho cominciato a divertirmi davvero. Tutto il resto è preambolo, e anche piuttosto noioso.

Perché è così che va e Capitan Harlock insegna; se smetti di temere la paura, allora la paura smette di corteggiarti e tu smetti di sbavare litrate di insofferenza sui cuscini gommosi della noia. L’arma migliore in assoluto per garantirsi delle piccole, a volte invisibili, ma non per questo meno significative, vittorie quotidiane è la Conoscenza.

Esistono guerrieri che hanno la vocazione di insegnare in modo efficace e sublime l’arte di questa guerra; lo fanno nel loro modo specialissimo e così sanno sconfiggere il buio e la paura. Io ne ho conosciuti alcuni; sono stati pochi, ma fondamentali. A loro devo la parte più buona del gusto che oggi ha la mia vita. A loro va la mia gratitudine. E un po’ di gratitudine va anche a quelle menti che a suo tempo hanno creato i cartoon anni 80 ed a tutti i creativi che colorano il mondo di intelligenza e Bellezza.

Curare l’inquietudine

Alla fine siamo tutti umani, in modo imperfetto e irrazionale; sono le esperienze che ci capita di vivere, quelle che ci cadono addosso nostro malgrado a mettere in evidenza questa verità. Magari si tende a pensare che siamo in grado di far fronte a tutto con la dovuta razionalità e capacità di discernimento; può darsi, forse il più delle volte i bagagli accumulati ci permettono di reagire alle circostanze della vita in modo fermo, ragionato e consapevole. Eppure esistono mondi dentro di noi, dentro tutti noi, che non conosciamo abbastanza, mai abbastanza, per metterci al sicuro da noi stessi. E questo un po’ spaventa ed allora si possono seguire due strade: una è quella di continuare ad ignorare una parte di noi e l’altra è quella di affrontarla. Nella maggior parte dei casi, un po’ perchè è più comodo e un po’ perché entrare nei labirinti personali è il viaggio che fa più paura in assoluto, non ci si fa caso, si cerca di non parlarne, di non focalizzarsi mai su quei segnali impercettibili che ogni tanto ci mandano dei messaggi reconditi, il più delle volte sottili, difficilmente interpretabili se filtrati da un ragionamento razionale. Eppure questi mondi ci condizionano e condizionano chi ci sta vicino, che ne siamo consapevoli o meno. Ed il condizionamento è spesso sconcertante; personalmente lo trovo curioso, proprio perché è difficilmente collocabile entro una sfera di rassicuranti spiegazioni razionali. Il punto è che personalmente faccio fatica ad ignorare ciò che non capisco. Non ci posso fare niente; se incappo in qualche cosa che non riesco a definire, perché ho dei limiti, perché non ho gli strumenti per poterlo sondare, rendere comprensibile alla mia scarsa schiera di neuroni affannati, allora m’inquieto e m’incaponisco. E oltre a ciò che mi è proprio nel senso più intimo della mia condizione umana, troppo umana, moltissimi altri fenomeni che osservo in Natura mi risultano incomprensibili e proprio per questo mi affascinano e mi coinvolgono. La conseguenza di ciò è che vivo in uno stato di perenne inquietudine. Ed ho provato a liberarmene, a fare l’indifferente, ma non funziona. Questa è un’altra di quelle cose inspiegabili che mi rende a sua volta inquieta. A volte penso che se tutte le menti del mondo fossero in grado di connettersi avremmo le risposte alle nostre domande; a tutte le nostre domande, intendo. Penso che se fossimo in grado di condividere in modo chiaro ed inequivocabile le nostre esperienze e le nostre conoscenze, potremmo arrivare tutti ad un livello di consapevolezza che ci permetterebbe di uscire dalla nostra condizione misera. Misera perchè limitata e limitante. Ecco, quando penso questo mi viene da guardarmi attorno e chiedermi se ci sapremo mai creare un modo per poter arrivare a tanto, un giorno. E poi mi vien da dire che, forse, una bozza di questo strumento è già nelle nostre mani; voglio dire che abbiamo già uno strumento che consente una condivisione di conoscenza pressoché illimitato, se ci pensiamo. Che cos’è la Rete se non questo? E allora, mi chiedo, perché non siamo in grado di giungere a questo livello di consapevolezza che ci liberi finalmente dalla nostra condizione limitante? La risposta credo stia nel fatto, a parer mio, indiscutibile che per poter arrivare ad un obiettivo è necessario prima riconoscerlo e poi perseguirlo con consapevolezza. Paradossalmente non possiamo essere consapevoli perchè non siamo consapevoli di volerlo essere. Non ci mancano gli strumenti, ci manca la consapevolezza di dover tendere tutti a un livello evolutivo superiore. E allora non ci rimane che provare ad arrancare quotidianamente in questo marasma di dubbi e paure, finché le paure non verranno soverchiate dalla Conoscenza e sempre più umani smetteranno di essere troppo umani. Ed è per questo che la Conoscenza non è nulla se non è condivisa e condivisibile. E allora non mi si venga a dire che quando una persona apre un blog lo fa solo perchè si annoia; non è così. Le persone aprono un blog perché hanno qualcosa da dire, anche in merito a quei mondi reconditi che nel loro quotidiano non riescono ad esprimere o a definire. Un blog non è uno sparare cretinate a zero “tanto per esserci”; questo è forse ciò che accade più sovente nei social meno impegnativi e che lasciano uno spazio limitato al ragionamento, perchè fondati su reazioni emotive più o meno pilotate. Senza voler generalizzare, quando mi accosto ai social di questo tipo la sensazione che ho è la stessa che ho provato guardando film come “Il nome della Rosa” o “Giordano Bruno”; la gente non ha mai veramente smesso di mettere al rogo ciò che sente diverso e quindi minaccioso dal proprio rassicurante vivere quotidiano. La Rete è uno strumento formidabile per le potenzialità in termini di condivisione di conoscenze; usarla per tentare di estraniarsi dal reale anziché per aiutarci reciprocamente a capirlo è un modo stupido di usare uno strumento preziosissimo. E finché la stupidità dilaga e mette in ombra l’intelligenza che, anche se spesso si fa fatica a crederci, è potenzialmente di tutti, perderemo l’occasione per migliorarci. Confido in quelle persone che scrivono e pubblicano immagini e pensiero pulito (nel senso che non è zavorrato da paure e fobie che lo rendono inutile e spesso gratuitamente offensivo del “diverso”) con il fine di condividere conoscenza. Sono molte e mi si permetta di dire che in un certo senso, io a queste persone sono estremamente grata.

Faust – un film di Alexander Sokurov

Ha vinto il Leone d’oro alla 68° mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, nel 2011.

Ispirato all’opera omonima di Johann Wolfgang von Goethe, il film riprende le vicende del dott. Faust e si ispira al personaggio mitologico del nostro tempo, presente nelle opere liriche, nella danza, nelle opere teatrali.

Il dott. Faust è un personaggio trasgressivo, che conduce una ricerca che lo porterà al limite della conoscenza umana. Credo che ciò che davvero affascina di Faust sia proprio questo aspetto del volersi spingere oltre il conoscibile.

L’ambientazione del film è medievale ed evidenzia le terribili condizioni di vita dell’epoca; fin dalle prime immagini si percepisce la condizione di estrema povertà e tutto è reso in maniera estremamamente fisica. Nelle prime sequenze del film il dott. Faust aiutato dal suo assitente Wagner, sta sezionando il corpo di un cadavere; il tutto è reso in maniera talmente cruda che pare di percepire le sensazioni tattili del dottore che immerge le mani nelle viscere del cadavere; si ha come la sensazione di percepire addirittura gli odori nauseabondi che da quel corpo emanano.

La luce è resa con poche tonalità di colore, per lo più fredde e crea un’atmosfera inquietante nel corso di tutto il film. Traspare il senso di opressione che prova Faust vivendo in un contesto che non gli permette di espandere ulteriormente la sua conoscenza; si avverte attraverso l’uso della luce il senso di chiusura e di oppressione che il personaggio vive.

A volte però la luce è resa in maniera quasi eccessiva, forse a sottolineare il passaggio dei limiti sensoriali ordinari e quotidiani ad una dimensione esperienziale diversa, sconosciuta e misteriosa; questo accade nei momenti in cui appare Margerete, ovvero l’oggetto di desiderio del protagonista.

Io che amo le fiabe e le favole, credo che questo film abbia molto in comune con questo genere di narrazione: Il Faust di A.Sokurov invita a leggere fra le righe, ad andare oltre al racconto visibile, oltre al dialogo. In un certo senso è l’invito che il romanzo stesso di Goethe fa al lettore, ovvero quello di spingersi oltre all’ordinario, oltre al conosciuto, ma Sokurov lo fa in maniera ancor più velata; questa è l’essenza di questo film e se ci pensiamo bene è l’essenza di tutti i racconti o fiabe per bambini che insegnano alla mente di vedere oltre le comuni esperienze quotidiane, al fine di ottenere un tipo di conoscenza, di saggezza più solida.

E’ un film enigmatico, dunque, che lascia spazio alla comprensione individuale, all’immaginazione di chi lo vede. La comprensione dei personaggi e dei loro obiettivi avviene attraverso un lavoro di immedesimazione che chi vede il film deve fare con uno sforzo in più, perché nulla è ben definito, nulla è dato per scontato. E questo rende il tutto ancor più affascinante, a parer mio, perchè somiglia moltissimo all’incertezza che ognuno di noi prova di fronte alla domanda: che cosa cerco? Cosa voglio?

Non vi è l’iniziale dilemma sull’esistenza di Dio che invece si trova nel romanzo e nella maggior parte delle opere su Faust. Per il dottor Faust se esiste il bene allora esiste anche il male. Se esiste Mefistofele, allora esiste Dio. Lo scopo che lo spinge alla ricerca, allo studio e alla conoscenza è l’esigenza di trovare l’essenza della vita, per arrivarvi e realizzare qualche cosa di grandioso, di eterno.

Per fare questo Faust sfida il male, il diavolo, ovvero Mefistofele e anche Goethe nel romanzo dice che Dio ha bisogno del diavolo, perché se non esistesse il diavolo, allora nessuno crederebbe in Dio.

E ciò che accade in Natura è esattamente la stessa cosa: se non ci fosse la notte, non ci sarebbe il giorno, se non ci fossero le stagioni fredde, non ci sarebbero le stagioni calde, così come se noi esseri umani non vivessimo, non potremmo morire, se non morissimo, non ci renderemmo conto della grandiosità della vita; ogni cosa definisce il suo opposto.

E ho pensato che se la conoscenza è paragonabile alla luce ed al bene, allora non potrebbe esistere senza l’ignoto e senza il male. E infatti Faust si rivolge a Mefistofele per arrivare alla conoscenza della quale è in cerca; ha bisogno del male per giungere al dunque.

Faust nel romanzo di Goethe è un uomo anziano, ma A.Sokurov lo presenta invece come un uomo di mezza età, con una certa esperienza questo sì, ma non vecchio. L’interesse per la vita viene risvegliato in lui dalla perfezione dell’innocenza pura e incontaminata di Margerete. L’uso della luce della quale si parlava prima esprime benissimo questa condizione del personaggio femminile. E’ come se tutto ciò che l’uomo fa per rendere piacevole la propria esistenza, rappresenti il tentativo di andare oltre a ciò che all’uomo è concesso di comprendere.

Ad ognuno di noi sono stati dati degli elementi di comprensione e non per tutti questi elementi sono gli stessi; molto dipende dalle esperienze che un essere umano può fare e da come queste esperienze vengono assimilate ed elaborate da noi stessi. La purezza che Faust coglie in Margerete è uno degli elementi che lo saprebbero portare oltre e di questo lui è consapevole e per questo è disposto a scendere a patti con Mefistofele pur di ottenerla.

In realtà Faust in Margerete cerca il piacere e in questa ricerca non perde di vista la ricerca prima, ovvero l’idea di immortalità.

E’ così per tutti i piaceri della vita, se ci si pensa; il tempo che abbiamo a disposizione è sempre troppo poco e di questo quasi tutti sembriamo renderci conto, tuttavia quasi tutti sprechiamo il nostro tempo con l’inutile trastullarci fra pensieri vuoti e attività altrettanto futili.

L’essenza della vita è un’altra cosa e Faust lo sa bene; è ciò che gli permetterebbe di aver vissuto senza aver sprecato il suo tempo. Lui è arrivato a questa conclusione perché ha passato il suo tempo studiando, cercando di capire e sopratutto a pensare al significato del suo esserci. Nella consapevolezza di essere un granello di polvere nell’immensità dell’Universo, Faust sente l’esigenza di darsi una definizione che sappia andare oltre e sa di avere poco tempo a disposizione per poterlo fare.

Il tempo è un tema centrale di questo film; o meglio, il tempo inteso come opportunità forse irripetibile di conoscenza che ogni singolo individuo ha, è il vero tema del film, a mio modo di vedere. Perchè dico forse? Perché l’immortalità di un’anima non è fra le nozioni che mi è dato di conoscere, ancora, non so a voi. 🙂

Potrei avere un’anima immortale e allora, in tal caso, avrei  altre oppurtunità, altro tempo. Oppure potrei avere un’anima che muore con il mio corpo; in tal senso la mia anima avrebbe a sua disposizione solo il tempo che rimane a disposizione del mio corpo.

In questo film si rende evidente quanto è impossibile per noi uomini arrivare a capire la vita e mi chiedo, che consolazione può dare una risposta artificiosa, seppur rassicurante? Personalmente non me ne dà nessuna e trovo maggior conforto nel continuare a cercare, esattamente come fa Faust fino alla fine del film.

Giovannin senza paura

Da:Fiabe italiane di Italo Calvino

C’era una volta un ragazzetto chiamato Giovannin senza paura, perché non aveva paura di niente. Girava per il mondo e capitò a una locanda a chiedere alloggio.   – Qui posto non ce n’è, – disse il padrone, – ma se non hai paura ti mando in un palazzo.

– Perché dovrei aver paura?

– Perché ci si sente, e nessuno ne è potuto uscire altro che morto. La mattina ci va la Compagnia con la bara a prendere chi ha avuto il coraggio di passarci la notte.

Figuratevi Giovannino! Si portò un lume, una bottiglia e una salsiccia, e andò. A mezzanotte mangiava seduto a tavola, quando dalla cappa del camino sentì una voce: – Butto?

E Giovannino rispose: – E butta!

Dal camino cascò giù una gamba d’uomo. Giovannino bevve un bicchier di vino.

Poi la voce disse ancora: – Butto?

E Giovannino: – E butta! – e venne giù un’altra gamba. Giovannino addentò la salsiccia.

– Butto?

– E butta! – e viene giù un braccio. Giovannino si mise a fischiettare. – Butto? – E butta! – un altro braccio.

– Butto?

– Butta! E cascò un busto che si riappiccicò alle gambe e alle braccia, e restò un uomo in piedi senza testa.

– Butto?

– Butta! Cascò la testa e saltò in cima al busto. Era un omone gigantesco, e Giovannino alzò il bicchiere e disse: – Alla salute!

L’omone disse: – Piglia il lume e vieni.

Giovannino prese il lume ma non si mosse.

– Passa avanti! – disse l’uomo.

Passa tu, – disse Giovannino.

– Tu! – disse l’uomo.

– Tu!- Disse Giovannino.

Allora l’uomo passò lui e una stanza dopo l’altra traversò il palazzo, con Giovannino dietro che faceva lume. In un sottoscala c’era una porticina.

– Apri! – disse l’uomo a Giovannino.

E Giovannino: – Apri tu!

E l’uomo aperse con una spallata. C’era una scaletta a chiocciola.

– Scendi, – disse l’uomo.

– Scendi prima tu, – disse Giovannino.

Scesero in un sotterraneo, e l’uomo indicò una lastra in terra.

– Alzala!

– Alzala tu! – disse Giovannino, e l’uomo la sollevò come fosse stata una pietruzza. Sotto c’erano tre marmitte d’oro.

– Portale su! – disse l’uomo.

– Portale su tu! – disse Giovannino.

E l’uomo se le portò su una per volta.

Quando furono di nuovo nella sala del camino, l’uomo disse: – Giovannino, l’incanto è rotto! – Gli si staccò una gamba e scalciò via, su per il camino. – Di queste marmitte una è per te, – e gli si staccò un braccio e s’arrampicò per il camino. – Un’altra è per la Compagnia che ti verrà a prendere credendoti morto, – e gli si staccò anche l’altro braccio e inseguì il primo. – La terza è per il primo povero che passa, – gli si staccò l’altra gamba e rimase seduto per terra. – Il palazzo tienitelo pure tu, – e gli si staccò il busto e rimase solo la testa posata in terra. – Perché dei padroni di questo palazzo, è perduta per sempre ormai la stirpe, – e la testa si sollevò e salì per la cappa del camino.

Appena schiarì il cielo, si sentì un canto: Miserere mei, miserere mei, ed era la Compagnia con la bara che veniva a prendere Giovannino morto. E lo vedono alla finestra che fumava la pipa.

Giovannin senza paura con quelle monete d’oro fu ricco e abitò felice nel palazzo. Finché un giorno non gli successe che, voltandosi, vide la sua ombra e se ne spaventò tanto che morì.

La magia delle fiabe sta in ciò che la mente può percepire fra una parola detta e l’altra. Giovannin senza paura è una fiaba popolare antica e verrebbe da dire subito che già nel titolo arriva dritta al nocciolo della questione: la paura dominata dal coraggio del protagonista. E non si parla di una paura qualsiasi, ma della paura peggiore, della paura dell’ignoto, ovvero della morte.

Ora, proviamo a immedesimarci in un bambino che sta ascoltando la storia dalla voce di una adulto, seduto magari di fronte ad un camino, o alla luce rassicurante di una lmpada e accoccolato al sicuro all’interno della propria casa.

Il racconto si svolge nell’arco di una notte e Giovannino si trova in un posto a lui sconosciuto e che nasconde mille incognite. La notte nasconde ciò che non si conosce, ciò che si teme perché non è reso visibile dalla luce.

Proviamo a immaginarci la voce del narratore che recita le parole della fiaba, proviamo a sentire il ritmo simile ad una filastrocca che cadenza il narrare, il botta e risposta fra Giovannino e un essere che arriva da quel camino che funge da collegamento con il contesto sicuro dell’interno di una casa e l’esterno oscuro e notturno.

Dal camino esce ciò che non si conosce, ciò che fa paura. Giovannino accoglie con coraggio quell’essere spaventoso che si presenta smembrato ed attende con calma, mangiando e bevendo, quindi facendosi più forte, che ogni pezzo di quello strano essere vada al suo posto e che si riveli nella sua interezza, per poterlo osservare per quello che realmente è e rapportarsi con lui.

Sostanzialmente Giovannino attende di conoscere tutti gli elementi prima di agire. E quando l’omone ormai visibile in tutta la sua interezza tenta di intimidirlo dandogli degli ordini, lui continua a reagire con sicurezza, rispondendogli a tono, per nulla impressionato dalla situazione. Giovannino continua a tenere la situazione sotto controllo, è sicuro di sè e non si fa intimidire.

Utilizza il lume per vederci meglio, per rischiarare quella notte che non gli permette di vedere le cose per quelle che realmente sono, per conoscere a fondo la situazione e per non commettere passi falsi. Si addentra nei luoghi che l’omone gli indica, ma facendosi precedere, quindi agisce, ma con cautela, con la dovuta prudenza.

E questo suo modo di affrontare la situazione lo porta alla ricompensa delle tre pentole d’oro. L’omone quindi non ha più motivo di essere, perché Giovannino ha fatto cadere l’incantesimo. La paura alimentava l’incantesimo. 

E così come era arrivato, pezzo dopo pezzo, l’omone svanisce attraverso il camino, venendo risucchiato da quell’ignoto non più spaventoso, perché ormai sconfitto dalla conoscenza acquisita da Giovannino. Quando la Compagnia viene a voler prendere il morto, Giovannino si affaccia senza timore alla finestra e accoglie il giorno.

Si affaccia verso l’esterno e forte delle ricchezze acquisite durante la notte, si fuma beatamente la pipa, proprio come forse fa un nonno o un papà, quindi una persona adulta, dopo aver raccontato una bella fiaba al suo nipotino o al suo bambino.

Giovannino è diventato una persona adulta perchè è stato prudente, coraggioso, abbastanza calmo e sicuro di sè da saper sconfiggere la paura di ciò che non conosceva.