La pastora – seconda parte

Il momento in cui le vacche venivano liberate dalle catene e venivano spinte lungo il sentiero appena uscite dalla stalla, mi creava sempre un po’ di ansia, perché c’era il rischio che quelle si mettessero a scorrazzare a destra e a manca, andando a calpestare l’erba dei prati confinanti. Erano momenti di una certa drammaticità, dati anche dall’improvviso rumore assordante prodotto dai bronzini e dai campanacci appesi al collo delle vacche, ma sembrava che di questa cosa me ne rendessi conto solo io.
I prati confinanti di proprietà altrui erano sacri; non si doveva farci entrare le vacche, assolutamente! Pena il rischio di interminabili dissidi e rimostranze, ritenute dai miei genitori più che giustificate, da parte dei vicini. E in un posto dove i rapporti con il vicinato sono vitali per il quieto vivere e spesso anche per la sopravvivenza, queste erano cose da evitarsi con la massima cura, perché l’erba calpestata è difficile da falciare, per non parlare dell’erba imbrattata di sterco.
Le parole d’ordine erano: rispetto dei confini, sempre! E tacitamente le altre parole d’ordine erano: rispetto delle convenzioni e delle tradizioni, sempre!! I principi fulcro erano quindi: rispetto, decoro e onestà. Fine.
Ora, da dove vengo io, le proprietà sono così parcellizzate che il rischio che una o più vacche sconfinassero nelle proprietà altrui durante gli spostamenti della mandria, era sempre altissimo e quando succedeva si alzavano urla e si udivano improperi irripetibili e tutti si mettevano a correre per risolvere il problema, perché si sa che le vacche non hanno la minima idea di che cosa sia una particella catastale e a tratti si comportano come le pecore; se una esce dal gruppo, è facile che anche le altre le vadano dietro, specie se la ribelle si dirige dove c’è erba fresca.
A volte si creano dei veri gruppetti di vacche dissidenti che cercano di farla in barba ai pastori mettendo in atto vere e proprie strategie e astuzie di gruppo pur di arrivare in zone succulente poste oltre confine; l’abilità del pastore sta nell’essere abbastanza convincente e risoluto da far capire alle vacche anarchiche che non c’è storia: le regole valgono per tutte!
Questi gruppetti sono costituiti solitamente da giovani manze capeggiate da una vacca che ha già partorito; a me stavano molto simpatiche le manze, perché erano quella via di mezzo fra un cucciolo e un adulto che mi faceva tenerezza, ma creavano sempre un po’ di problemi, quindi non dovevo darlo troppo a vedere. Anche fra le vacche gli adolescenti andavano frenati e controllati, in nome del quieto vivere della mandria tutta.
Un tempo tutti i sentieri erano delimitati dalle staccionate in legno. Le staccionate erano solide e fitte, costruite con dei pali di maggiociondolo infissi nel terreno e delle aste di larice lunghe diversi metri e inchiodate sui pali, incastrate l’una nell’altra in senso orizzontale. Il larice ed il maggiociondolo venivano scelti per le staccionate perché sono i legni più resistenti e duraturi. Un palo di maggiociondolo resiste per decenni, seppure infisso nel terreno, e la resina del larice protegge la cellulosa dalle intemperie. Un tempo il paesaggio delle mie montagne era costellato ovunque dalla presenza di queste recinzioni; ovunque vi fosse un confine di proprietà e una mulattiera o un sentiero vi era una staccionata.
Poi, nel tempo, si è persa la consuetudine di fare manutenzione alle staccionate; un po’ perché il numero dei capi di bestiame, a seguito dell’esodo dei contadini di montagna verso le fabbriche di fondovalle, era sempre più esiguo e un po’ perché la graduale meccanizzazione dello sfalcio dei prati richiedeva una certa libertà di movimento per i mezzi. E allora questo caratteristico elemento dei paesaggi montani venne pian, piano a scomparire. Fu uno dei primi segnali del cambiamento.
E fu così che per delimitare il passaggio delle vacche e del bestiame in genere, nei punti dove ormai le vecchie staccionate avevano ceduto, si ripiegava su del filo di ferro o su delle fettucce plastificate orribili a vedersi, sostenute da ganci in plastica altrettanto brutti, ma tuttavia funzionali; sono queste le tipiche recinzioni amovibili che vengono usate oggigiorno da tutti i pastori.
Una volta avviata la mandria c’era chi doveva precederla chiamandola e chi doveva seguirla, spingendola. Ora, può sembrare strano, ma le vacche se tu le chiami ti seguono e non è solo una questione affettiva, non funziona esattamente come per i cani; le vacche ti seguono perché tu hai il sale nella sacca, o perché fingi di averlo.
In fin dei conti, come accade spesso anche nella vita non bovina, seppure può risultare un po’ cinico dirlo, la fedeltà e l’obbedienza sono spesso dettate da una base opportunista e interessata. Le vacche non fanno eccezione. Loro ti identificano come “quella che potrebbe darmi il sale” e più le chiami e più abbassano la testa per accelerare il passo ed arrivare per prime all’obiettivo, ovvero la manciata di sale; in tal senso è anche una questione di competizione, se vogliamo.
Il richiamo delle vacche da parte del pastore che precede la mandria nel mio dialetto filo tedesco ha tutta una sua filosofia e consta di regole di sonorizzazione abbastanza precise.
La peculiarità di tale richiamo varia da famiglia di allevatori a famiglia di allevatori, ma la regola essenziale è sempre la stessa: le vocali vanno tenute a lungo e a piena voce come in un canto che, a seconda delle doti canore del pastore, può risultare più o meno stonato.
Ogni tanto, perché il richiamo risulti più convincente e meno impersonale per le vacche, si pronuncia il nome di questa o di quell’altra vacca*, in modo tale che sentendosi chiamare per nome, quelle pensino: “Oh caspita! Sta chiamando proprio me! Vuoi vedere che mi riserva un po’ di sale?!!”
Potrebbe sembrare una cosa priva di buon senso e di ogni logica razionale, eppure i risultati di attente osservazioni sul campo dimostrano senza ombra di dubbio che le vacche riconoscono il richiamo del proprio nome, e seppure non ho mezzi scientifici per comprovare le mie affermazioni, confido nella fiducia che spero mi si vorrà accordare in qualità di pastora di consolidata esperienza, seppur non più praticante.
Il richiamo delle vacche fa più o meno così: “Géééééàààààdòòòòò géééééààààààà….. Géééééééééààààààà Balin* dòòòòòòòòòòò géééééééééààààààààààààààààààààààà… Gea zoltz dòòòòòòòòòò géééééééàààààààà….”
Tradotto significa: Viiiiiiieeeeeeeeeeniiiiiiiiiiii quiiiiiiiiiiiiiiiiii vieeeeeeeeeeeeeniiiiiiiiiiii, vieeeeeeeeniiiiiii Balin, quiiiiiiii vieeeeniiiiiiiiiiiiiiiii. VIeniiiiiiiiiiiiiiiii c’è il sale, vieniiiiiiiiiiii…. e così via.
Se le vacche son pigre, come spesso si verifica quando alla sera son sazie e un po’ stanche, il richiamo va tenuto fino alla stalla; il che richiede un notevole dispendio di energie in termini di usura di corde vocali, polmoni e diaframma. Tuttavia per un pastore che ha trascorso tutto il giorno in solitaria e in silenzio fra le montagne, il richiamo della mandria, a mio parere, può risultare anche un piacevole sfogo e un collaudo delle proprie immutate capacità vocali.
Diversi sono i richiami per le capre; questi hanno un suono più secco e breve, forse un po’ per conformarsi al carattere più spigoloso, indipendente, dispettoso e recalcitrante di questi animali rispetto al carattere più bonario e relativamente mansueto delle vacche. Tranne che per le vocali finali che, anche in questo caso, si tengono spesso un po’ più a lungo, le capre si chiamano più o meno in questo modo: Lèkkkka lèkkkkka tziààààààà!!! Lèkkka lèkkka lèkkka tziààààà. Tziàààà tziàààààhhh.
Non c’è traduzione.
Le capre sono animali incredibilmente strafottenti: se hai il sale e le chiami ti seguono; se credono che tu abbia il sale e le chiami, ti seguono; se si accorgono che tu fingi di avere il sale e non ce l’hai, tu le chiami, ma loro ti ignorano. Con la vacca puoi giocare un po’ più d’astuzia, perché è di indole più fiduciosa, ma non si può tirare troppo la corda; gli animali come le persone, dopo un po’ che danno fiducia senza ottenere risultato, si ribellano o perdono interesse.
Anche per il richiamo delle capre esistono diverse varianti da pastore a pastore, ma in qualsiasi caso è fondamentale non farsi prendere dall’ilarità mentre si effettua il richiamo, perché altrimenti il gregge smette di prenderti sul serio e come pastora hai finito la carriera.
La vacca che precede la mandria è solitamente la più vecchia o comunque la più scaltra del gruppo, neanche a dirlo. Le si mette il campanaccio più buono, ovvero quello che si fa sentire a maggiore distanza. Come capo mandria abbiamo avuto per lungo tempo una vacca di razza Rendena, di quelle tutte nere, di taglia medio piccola, tenaci, rustiche, cocciute e ottime produttrici di latte e vitelli sani; la nostra rendena aveva le corna ritorte in avanti e si chiamava Balin, perché ricordava un po’ la forma sferica di un pallettone da doppietta e fu la capostipite di diverse generazioni successive di rendene.
Balin era la più vecchia della mandria ed era una vacca furbissima. Aveva una memoria che nemmeno gli elefanti; lei si ricordava tutti i sentieri e tutti i percorsi più comodi per arrivare ai pascoli. Le altre vacche nemmeno si mettevano a discutere su chi di loro doveva guidare la mandria e tutte sapevano che quando Balin si muoveva, loro dovevano muoversi e seguirla, punto.
A parer mio, molti manager che gestiscono gli interessi ed i beni comuni di noi poveri mortali avrebbero molto da imparare da una vacca come Balin; lei era una leader indiscussa perché nel concreto sapeva portare le altre dove la situazione vitale era ottimale, sia dal punto di vista del pascolo sicuro, sia dal punto di vista dell’abbondanza e della qualità del foraggio nei diversi periodi dell’anno.
Se non ci fossero stati tutti quei limiti dati dai confini di proprietà imposti dalla logica umana, a Balin si sarebbe potuto benissimo affidare tutta la mandria alla mattina, stando certi che lei alla sera l’avrebbe riportata alla stalla in orario per la mungitura e che tutte le vacche sarebbero rientrate sazie, riposate e pasciute.
Purtroppo, nonostante le sue indiscutibili doti di leader incontestata, Balin non si faceva scrupolo a sconfinare nei prati altrui, specie se quelli dovevano ancora esser falciati e tantomeno si poneva il problema degli orti o dei campi coltivati a cavoli che, anzi, per lei erano il vero obiettivo inconfessabile e sempre presente nelle sue strategie di movimento quando ci si trovava alle quote più basse e vicino ai centri abitati.
Quindi la leader andava tenuta d’occhio; questo faceva parte del mio lavoro ed è un po’ quello che noi tutti in qualità di cittadini dovremmo continuare a fare anche in contesti diversi da quello zootecnico.

La pastora – Prima parte

Si dice “pastora”? Si può dire? Non lo so, comunque se anche non si può, io lo dico lo stesso, perché io sono stata una pastora, non un pastore. Avevo otto anni, più o meno. Da aprile a settembre inoltrato ci si alzava presto, troppo presto per i miei gusti. Tuttavia, una volta superato il dramma della levataccia e messo il naso fuori casa, la cosa non mi dispiaceva poi tanto. L’aria del mattino era fresca, quasi fredda e dopo il primo impatto non proprio piacevole dove si potevano osservare benissimo i peli sulle braccia nude che si drizzavano all’improvviso, la sensazione diventava quasi gradevole specie una volta che si cominciava a camminare. Nei prati al mattino c’erano i merli e le cince e altri uccelli e quando io correvo nell’erba bagnata, loro si alzavano in volo, scostandosi appena un po’ e mi davano il buongiorno. Anche le cavallette saltavano a destra e a sinistra al mio passaggio; quelle grandi e verde brillante con le ali lunghe e le zampe posteriori potenti, e quelle più piccole e colorate con le zampette e le ali meno possenti. Era divertente, davvero divertente. Se pioveva fin dal mattino, allora non si andava, si rimaneva a casa, quasi sempre. Nei mesi caldi, la mattina si andava a prendere il pane nel piccolo negozio del paese e ci si comprava un po’ di viveri per la giornata da mettere nello zaino, prima di partire con la mandria delle vacche. Il pane veniva portato con un furgone bianco dal proprietario di un panificio che si trovava nel fondovalle, nel paese di Canezza, a nemmeno venti chilometri di distanza; era un pane buonissimo ed aveva un profumo che una poi non se lo scorda più e va a finire che tutto il pane che mangerà in seguito lo paragonerà con quello, che però sarà inarrivabile per profumo, gusto, croccantezza e sapore. Le persone che si incontravano nel negozietto del paese erano sempre le stesse e avevo la sensazione che sarebbero rimaste le stesse per tutta la vita; sempre con quelle facce e sempre con il loro particolare modo di salutare, di muoversi, di esserci. Non sapevo ancora che il tempo avrebbe cambiato le cose e che soprattutto avrebbe cambiato quelle persone; non potevo ancora rendermene conto. Adesso, quando rivedo queste stesse persone, quelle poche volte che ritorno in paese, mi pervade un senso di affetto sincero nei loro confronti, un senso di rimpianto per il tempo perduto, per il tempo in cui non le ho viste cambiare, invecchiare, diventare quello che sono adesso. Tornata a casa dopo la spesa facevo colazione con tazzone di latte e caffè, uova sbattute con lo zucchero e chilate di pane fresco; un inno al carboidrato, all’esubero di calorie e alla proteina animale! Poi mia sorella preparava lo zaino con il tè, il pane, le solite scatolette di tonno con i fagioli ed i soliti due yogurt alla banana e subito dopo si andava insieme in stalla per liberare le vacche.