Curare l’inquietudine

Alla fine siamo tutti umani, in modo imperfetto e irrazionale; sono le esperienze che ci capita di vivere, quelle che ci cadono addosso nostro malgrado a mettere in evidenza questa verità. Magari si tende a pensare che siamo in grado di far fronte a tutto con la dovuta razionalità e capacità di discernimento; può darsi, forse il più delle volte i bagagli accumulati ci permettono di reagire alle circostanze della vita in modo fermo, ragionato e consapevole. Eppure esistono mondi dentro di noi, dentro tutti noi, che non conosciamo abbastanza, mai abbastanza, per metterci al sicuro da noi stessi. E questo un po’ spaventa ed allora si possono seguire due strade: una è quella di continuare ad ignorare una parte di noi e l’altra è quella di affrontarla. Nella maggior parte dei casi, un po’ perchè è più comodo e un po’ perché entrare nei labirinti personali è il viaggio che fa più paura in assoluto, non ci si fa caso, si cerca di non parlarne, di non focalizzarsi mai su quei segnali impercettibili che ogni tanto ci mandano dei messaggi reconditi, il più delle volte sottili, difficilmente interpretabili se filtrati da un ragionamento razionale. Eppure questi mondi ci condizionano e condizionano chi ci sta vicino, che ne siamo consapevoli o meno. Ed il condizionamento è spesso sconcertante; personalmente lo trovo curioso, proprio perché è difficilmente collocabile entro una sfera di rassicuranti spiegazioni razionali. Il punto è che personalmente faccio fatica ad ignorare ciò che non capisco. Non ci posso fare niente; se incappo in qualche cosa che non riesco a definire, perché ho dei limiti, perché non ho gli strumenti per poterlo sondare, rendere comprensibile alla mia scarsa schiera di neuroni affannati, allora m’inquieto e m’incaponisco. E oltre a ciò che mi è proprio nel senso più intimo della mia condizione umana, troppo umana, moltissimi altri fenomeni che osservo in Natura mi risultano incomprensibili e proprio per questo mi affascinano e mi coinvolgono. La conseguenza di ciò è che vivo in uno stato di perenne inquietudine. Ed ho provato a liberarmene, a fare l’indifferente, ma non funziona. Questa è un’altra di quelle cose inspiegabili che mi rende a sua volta inquieta. A volte penso che se tutte le menti del mondo fossero in grado di connettersi avremmo le risposte alle nostre domande; a tutte le nostre domande, intendo. Penso che se fossimo in grado di condividere in modo chiaro ed inequivocabile le nostre esperienze e le nostre conoscenze, potremmo arrivare tutti ad un livello di consapevolezza che ci permetterebbe di uscire dalla nostra condizione misera. Misera perchè limitata e limitante. Ecco, quando penso questo mi viene da guardarmi attorno e chiedermi se ci sapremo mai creare un modo per poter arrivare a tanto, un giorno. E poi mi vien da dire che, forse, una bozza di questo strumento è già nelle nostre mani; voglio dire che abbiamo già uno strumento che consente una condivisione di conoscenza pressoché illimitato, se ci pensiamo. Che cos’è la Rete se non questo? E allora, mi chiedo, perché non siamo in grado di giungere a questo livello di consapevolezza che ci liberi finalmente dalla nostra condizione limitante? La risposta credo stia nel fatto, a parer mio, indiscutibile che per poter arrivare ad un obiettivo è necessario prima riconoscerlo e poi perseguirlo con consapevolezza. Paradossalmente non possiamo essere consapevoli perchè non siamo consapevoli di volerlo essere. Non ci mancano gli strumenti, ci manca la consapevolezza di dover tendere tutti a un livello evolutivo superiore. E allora non ci rimane che provare ad arrancare quotidianamente in questo marasma di dubbi e paure, finché le paure non verranno soverchiate dalla Conoscenza e sempre più umani smetteranno di essere troppo umani. Ed è per questo che la Conoscenza non è nulla se non è condivisa e condivisibile. E allora non mi si venga a dire che quando una persona apre un blog lo fa solo perchè si annoia; non è così. Le persone aprono un blog perché hanno qualcosa da dire, anche in merito a quei mondi reconditi che nel loro quotidiano non riescono ad esprimere o a definire. Un blog non è uno sparare cretinate a zero “tanto per esserci”; questo è forse ciò che accade più sovente nei social meno impegnativi e che lasciano uno spazio limitato al ragionamento, perchè fondati su reazioni emotive più o meno pilotate. Senza voler generalizzare, quando mi accosto ai social di questo tipo la sensazione che ho è la stessa che ho provato guardando film come “Il nome della Rosa” o “Giordano Bruno”; la gente non ha mai veramente smesso di mettere al rogo ciò che sente diverso e quindi minaccioso dal proprio rassicurante vivere quotidiano. La Rete è uno strumento formidabile per le potenzialità in termini di condivisione di conoscenze; usarla per tentare di estraniarsi dal reale anziché per aiutarci reciprocamente a capirlo è un modo stupido di usare uno strumento preziosissimo. E finché la stupidità dilaga e mette in ombra l’intelligenza che, anche se spesso si fa fatica a crederci, è potenzialmente di tutti, perderemo l’occasione per migliorarci. Confido in quelle persone che scrivono e pubblicano immagini e pensiero pulito (nel senso che non è zavorrato da paure e fobie che lo rendono inutile e spesso gratuitamente offensivo del “diverso”) con il fine di condividere conoscenza. Sono molte e mi si permetta di dire che in un certo senso, io a queste persone sono estremamente grata.

Il Silenzio secondo me

A volte divento irrequieta, come accade un po’ a tutti, presumo. Sì, insomma, mi prende quella sensazione che se non cambio contesto, situazione, se non mi allontano da quell’invisibile (a volte nemmeno poi tanto invisibile) fonte di stimoli che, se non sono negativi, poco ci manca, allora potrebbe accadere qualche cosa di ancor più sgradevole. Sì, insomma, a volte ci si agita come fanno i gatti quando vedono le rondini dalla finestra, magari anche senza sapere bene il perché, e si ha bisogno di uscire.

Quando mi succede, e mi succede spesso, vado a camminare nei boschi.

Se cammino nei boschi ancora coperti di neve in giornate un po’ cupe come quelle di questi giorni, ad esempio, scegliendo di non starmene rinchiusa ad aspettare il sole ed il ritorno spontaneo del buon umore, opto per i luoghi più impervi e possibilmente difficilmente raggiungibili da altri bipedi umani.

E’ una scelta istintiva; lì mi sento al sicuro come in nessun altra situazione, come in nessun altro luogo. I boschi sanno fare questa magia, sanno risollevare l’umore, anche il più nero.

Ci metto il tempo che ci metto, perché non è che sono un drago, non mi interessano e non sono portata per le performance da grande alpinista; ascolto il mio respiro e lo assecondo. Mi godo pure i passi, il mio ritmo lento.

Più fatico ad arrivarci e più mi sento tranquilla, perché so che la medesima fatica solo pochi sarebbero disposti a farla, specie se poi il paesaggio è quel che è; e si sa com’è, no? La montagna seleziona; i boschi, alcuni boschi, pure.

E allora non scelgo mai i luoghi con i siti panoramici. Se hai le balle girate, mi si perdoni il francesismo, è meglio evitare i posti da assembramento panoramico; è anche una questione di rispetto verso il prossimo, se vogliamo. 🙂

Una volta arrivata mi sento meglio, mi sento a casa, anche se il tempo non è meno grigio e anche se la luce tenderebbe a tapparmi la gola. In tal senso, credo fermamente che se la gente avesse tutta la possbilità di farsi due passi nei boschi all’occorrenza, gli strizzacervelli metropolitani dovrebbero cercarsi un altro lavoro.

Le escursioni nei boschi dovrebero essere mutuabili.

Se poi il terreno è innevato e ci arrivo per prima, prima che qualcun altro ci abbia messo piede da mesi, intendo, beh quando succede è come se la montagna mi facesse un regalo grandioso, esclusivo; mi sento privilegiata, fortunatissima e davvero, davvero felice.

E’ questo il tipo di felicità che io augurerei di provare a tutti, almeno una volta nella vita… almeno una… ma possibilmente anche più volte in una settimana.

In quei momenti non chiedo nient’altro che di starmene lì il più a lungo possibile ad ascoltare il silenzio, o il canto di una nocciolaia e di qualche cincia. D’estate è bello rimanerci fino a notte, magari aspettando il levarsi della luna.

A volte si è talmente fortunati che si avvista qualche cervo che si fa strada a fatica nella neve, o qualche camoscio in lontananza, sulle rocce, o anche più vicino, nel sottobosco. Oppure succede di avvistare una martora o più di frequente, qualche bella volpe. In quei momenti mi godo il fatto di essere viva, e non chiedo niente di più, perché sento che quello di cui ho bisogno è tutto lì attorno.

C’è una magia grandiosa che un essere umano può vivere avvistando un animale selvatico nel silenzio di un bosco, o su un dirupo di un versante, o standosene semplicmente seduto sotto un albero. Non parlo solo di animali di grandi dimensioni.

Tutti siamo attirati verso gli animali che un po’ ci somigliano e se ci pensiamo amiamo in prevalenza i mammiferi. Questo è naturale, eppure non c’è essere vivente che non sia affascinante e meraviglioso, seppur può essere molto diverso da noi, e anzi ,a volte è stupendo proprio perchè è tanto diverso. Però di questo ne riparlerò, per chi avrà la pazienza di leggere oltre.

In quei momenti di tranquillità assoluta il senso di gratitudine nasce spontaneo e detta la regola fondamentale, ovvero quella che richiede rispetto assoluto, che richiede il Silenzio. Fin da piccola mi è stata insegnata questa regola: se si ha la fortuna di incontrare un abitante di un bosco, la prima cosa da fare è cercare di evitare di spaventarlo. A volte non è possibile, ma il più delle volte si può e allora ci si allontana con le dovute precauzioni, magari allungando un po’ il percorso, se necessario.

Qualcuno mi ha chiesto perché ritengo questa regola così importante e questo mi è accaduto più volte. Ed ogni volta un po’ m’incazzo, lo confesso, però ho imparato a non darlo a vedere, perchè mica è scontato capire sta cosa, ho scoperto. Voglio dire, per me il motivo è così ovvio, ma forse lo è perchè fin da piccola mi sono state insegnate alcune cose.

In un bosco si sta zitti o si parla a bassa voce perché gli animali non vanno spaventati. Il bosco è come le chiese; nelle chiese non si urla, non si schiamazza e non si fischia, perché i templi di ogni credo religioso sono luoghi sacri e lo sono anche per i non credenti; e allora i non credenti rispettano il credo altrui. Va così. Il bosco e la montagna sono altrettanto sacri, anche per i non credenti e per lo stesso motivo di cui sopra.

La parola d’ordine è RISPETTO. La montagna lo insegna, i boschi pure.

Quando si è da soli in queste situazioni è più facile seguire questa regola. Intendiamoci, è bello poter condividere questi momenti, a volte, ma comunque non è la stessa cosa. In due o più persone si tende a chiacchierare, si fa molto più rumore mentre si cammina, com’è umano che sia, e si sa che chiacchierando non si avvistano animali selvatici. Se poi accade che si vede comunque qualche animale non umano, è perchè lo si è fatto scappare, quindi non si rispetta le regola fondamentale, quella del rispetto, del Silenzio, quella che molti non capiscono che senso abbia.

Non è che deve diventare una paranoia, però ci si deve prestare la dovuta attenzione, ecco.

Secondo me quando si entra in un bosco e si va a camminare su un sentiero in montagna bisognerebbe farlo come se si entrasse in casa altrui; se qualcuno entra in una casa di uno sconosciuto senza chiedere permesso, magari urlando e ridendo e fischiando e sbraitando, (c’è gente che lo fa per ore nei boschi!!! (!?!) ) il padrone di casa potrebbe anche invitarlo ad uscire e se anche lo facesse in modo brusco, ne avrebbe tutte le ragioni, io penso.

Questo tipo di atteggiamento l’ho notato in prevalenza fra i fungaioli e mi son chiesta spesso: ma non è che questi si mangiano i funghetti e poi un po’ c’hanno gli svarioni da alterazioni degli stati di coscienza e non si rendono conto di esagerare?

Purtroppo gli abitanti di un bosco non possono invitare ad uscire i cafoni che  non hanno rispetto del luogo dove loro abitano, anche se sarebbe bello se lo potessero fare, sarebbe meraviglioso se lo facesero.

A parer mio, non è un male che la gente si concentri sugli impianti di risalita e vi rimanga magari per settimane facendo su e giù come sulle giostre; non è un male, perché se tutta quella gente entrasse nei boschi e camminasse lungo i sentieri, ho come la sensazione che la maggior parte si comporterebbe come quei cafoni che chiunque metterebbe alla porta se gli entrassero in casa.

Questo senza voler generalizzare, sia chiaro; c’è gente che ha una sensibilità innata e che sa come coportarsi in ogni situazione, boschi compresi.

Il senso del rispetto in queste situazioni va insegnato a tutti i bambini, io penso. Lo penso perché per molti adulti ormai non c’è più speranza. Non sto esagerando; il bosco e la montagna sono di tutti, ma c’è modo e modo di viverli. Ci sono i luoghi ed i momenti dove è bello fermarsi e chiacchierare, solo è necessario capire quando ci si arriva e quali sono.

Se qualcuno non è pronto a passare qualche ora in silenzio con se stesso, a parer mio non dovrebbe entrare in un bosco, e se lo fa, dovrebbe farlo con l’intenzione di imparare a starsene zitto, almeno per un po’. Magari ci prova pure gusto a regalarsi un po’ di pace, a farsi tornare il buon umore e a smettere di far lavorare la lingua, lasciando girare i neuroni in meditazione, ogni tanto.

Lo Stercorario: una metafora calzante e un esempio virtuoso eccellente

Andiamo, non mi dite che non vi piacciono i Coleotteri! Ma sì, son quegli insetti ricoperti da una solida struttura che spesso han dei colori dai riflessi meravigliosi!

Un esempio classico che conoscono tutti? La coccinella (Coccinella septempunctata), ad esempio. Però fra i coleotteri c’è anche la cetonia (Cetonia dorata) che se magna i fiori dei balconi, la dorifora (Doryphora decemlineata) che se magna le patate , il cervo volante (Lucanus Cervus) che è il Coleottero più grande d’Europa ed il maggiolino (Melolontha melolontha) che nel caso specifico non è l’automobile tedesca protagonista di un famoso film della Disney, ma anche lo scarabeo di cui esistono diverse specie.

Molti quando si dice la parola scarabeo pensano forse all’antico Egitto (ho detto forse… qualcuno potrebbe pensare anche a qualcos’altro, ci mancherebbe…), perchè per gli antichi egizi lo scarabeo era un animale sacro e quando si parla di maledizioni e mummie e di Egitto, spesso si parla pure di scarabei. Però questa è un’altra storia e ne riparlerò.

Nel caso di questo post, invece, si parlerà in prevalenza di un Coleottero che non fa parte della famiglia degli Scarabeidi, ma della famiglia dei Geotrupidi: lo Stercorario.

In realtà l’Ordine dei Coleotteri (Coleoptera – Linnaeus 1758) annovera oltre 35.000 specie suddivise in  20 superfamiglie e in ulteriori 166 famiglie. Quelle citate sono solo alcune fra le più comunemente conosciute alle nostre latitudini. Non vi è nessun altro gruppo di organismi viventi che comprende un numero tanto alto di specie, vegetali inclusi.

Il numero di specie nuove di Coleotteri che si vanno a scoprire ogni anno sono circa un centinaio. Sono diffusi su tutta la Terra, tranne che in Antartide. In Europa vivono circa 8000 specie. Come per tutti gli altri insetti hanno il corpo suddiviso in capo, torace e addome e hanno sei zampe.

Tutti i Coleotteri, quindi anche gli stercorari, hanno in comune alcuni caratteri peculiari che li rendono inconfondibili; innanzitutto la loro struttura “a scudo”, ovvero l’involucro esterno che sembra una vera e propria corazza rigida che ricopre tutto il corpo.

Si pensa che il loro successo evolutivo sia dovuto proprio a questa particolare struttura; se così fosse noi umani che siamo mollicci e morbidosi, abbiamo poco da stare allegri… e se ci pensiamo l’unica parte del nostro corpo che è protetta e dura come la scorza di un cocomero è il cervello… che è anche la parte più evoluta, dicono. Per questo motivo io direi che non è il caso di prendersela quando qualcuno vi dice che avete la testa dura; in termini evolutivi potrebbe essere un gran vantaggio, rendiamoci conto.

I Coleotteri hanno  degli occhi composti e un apparato boccale masticatore.  Le antenne hanno forme e dimensioni molto varie e la stuttura delle zampe è anch’essa variabile in rapporto alla funzione che devono svolgere.

Tuttavia il carattere distintivo per eccellenza dei Coleotteri è la presenza delle elitre da elythron – (involucro). Le elitre sono delle ali sclerificate e non svolgono più la funzione del volo, ma di protezione. Sotto le elitre vi sono le ali vere e proprie. Avete mai osservato il volo di una coccinella? La fate salire su un dito, la alzate in alto e quando lei raggiunge la punta del dito vedrete che lei alza le elitre, spiega le ali sottili e trasparenti che si trovano sotto alle elitre, e poi vola via.

Ora, detto questo, veniamo finalmente allo stercorario. Lo stercorario per me non è solo un bel Coleottero, ma è anche una splendida metafora della vita; ebbene sì, perché lui vive nello e di sterco. La metafora, mi direte, dove sta? Sta nello sterco? Sta nella vita? No, la metafora sta nella vita di sterco, che nel caso dell’animale di specie umana si può pure definire vita di merda, mi si perdoni il francesismo.

Lui, lo stercorario, è nero, lucente con riflessi metallici. Pare un guerriero d’altri tempi, un insetto tutto d’un pezzo, come d’altra parte sono tutti i Coleotteri. C’ha pure le antenne clavate, oltre a delle zampe possenti e robuste.

Passa gran parte della sua esistenza sospingendo delle palle di sterco, delle quali si nutre… e le sospinge verso casa; queste palle sono spesso tre volte, quattro volte più grandi di lui. Vi viene in mente niente? Vi accade di avere una lieve sensazione di immedesimazione, seppur involontaria? Ebbene, non preoccupatevi; è normale. La maggior parte delle esistenze umane, che ci si renda conto o meno, somigliano non poco a quella degli stercorari.

La differenza sta nel fatto che lo stercorario agisce seguendo la sua natura, mentre la specie umana… pure.

In autunno la coppia si dedica alla preparazione del nido. Scavano nel terreno una galleria verticale e poi la femmina predispone delle gallerie laterali orrizzontali che terminano ciascuna con un’ampia camera.

In queste camere vengono immagazzinati gli escrementi che lo stercorario raccoglie per le vie del mondo imbrattato dalla presenza di animali mammiferi e non. In ogni camera lo stercorario lascia libero un piccolo spazio nel quale la femmina depone un uovo.

Dalle uova nasceranno le larve che si nutriranno della scorta di sterco accumulata dai genitori. Le larve ci mettono due anni per svilupparsi e i nuovi adulti escono dalle loro gallerie in luglio. Svernano nelle loro gallerie ed escono solo nella primavera successiva.

Lo stercorario a prima vista, e anche dopo un’osservazione più attenta, fa quindi proprio una vita di sterco; tuttavia è uno di quegli insetti indispensabili e utilissimi, per nulla dannosi o problematici. Come spesso accade anche fra gli umani, chi fa una vita di merda la fa a favore del benessere collettivo.

Lo stercorario si occupa in buona sostanza del riciclaggio di sterco e di materiale in putrefazione. Fa parte della famosa categoria degli “spazzini della natura”. Grande rispetto per lo stercorario, dunque, perché leva di mezzo del materiale che potrebbe originare pericolosi focolai di malattie infettive di tipo epidemico.

Le famiglie di Coleotteri che svolgono questa importantissima funzione oltre alla famiglia dei Geotrupidi sono: Silfidi, Stafilinidi e Scarabeidi. Questi si nutrono di carogne e di materiale organico in putrefazione, ma provvedono anche a seppellire con un lavoro indefesso grandi quantità di piccoli cadaveri e di escrementi.

Gli egizi avevano buoni motivi per ritenere sacro lo scarabeo, dunque. E se ci pensiamo gli antichi avevano spesso ottimi motivi quando decidevano di mostrare concretamente grande rispetto per la Natura. E noi, che ci riteniamo più evoluti, in tal senso ci dimostriamo invece spesso degli emeriti cretini. Voglio dire: abbiamo a disposizione un sapere millenario che non caghiamo più di striscio, mentre continuiamo a commettere sempre gli stessi imperdonabili errori! Ma non divaghiamo…

Altri coleotteri provocano danni immani alle colture agricole, ma io penso sempre più spesso che questo sia dovuto al fatto che l’uomo dalla natura deve imparare ancora molto; innanzitutto dovrebbe imparare l’umiltà della condizione che gli è propria e poi dovrebbe imparare a sfruttare le risorse che la natura gli mette a disposizione con il dovuto rispetto e con maggiore intelligenza.

Certo, per sfruttare le risorse nel modo più efficace e appropriato è necessario conoscerle a fondo, fare un bel po’ di fatica in tal senso, dedicarvisi, magari seguendo strade ostiche e faticose, evitando le scorciatoie dannose che abbiamo preso fin troppo spesso per ottenere una produzione agricola eccessivamente intensiva e fragile.

E se noi esseri umani abbiamo bisogno di buoni esempi in fatto di fatica fatta per far le cose a regola d’arte, ci potremmo rivolgere a uno stercorario qualunque, per dire.

Ho mancato la fotosintesi

Mi accade a volte di ostinarmi a focalizzare un’unica invadente sensazione; non sempre si tratta di sensazioni gradevoli, tutt’altro. Ci sono sere come queste nelle quali mi rimane negli occhi la luce grigia di una giornata invernale, di quelle che fin dal mattino promettono neve, senza che la neve arrivi davvero, ma che stende il grigio con un’ostinazione fin troppo precisa, lasciando che sedimenti fino al centro degli strati interni dell’anima, comprimendo l’umore. Eppure oggi è stato uno di quei giorni in cui un semplice “bip” poteva far sorridere di soddisfazione, ma il cielo velato e malinconico ha tolto il gusto di poterne godere davvero. E poi c’è stato l’incontro con quello che io chiamo il Re e che solitamente mi lascia il sorriso dentro per lunghe ore, ma oggi no, oggi il Re non è bastato. Ho parlato a lungo di cose senza alcuna importanza, annoiando qualcuno, e forse in buona parte anche me stessa. Credo che tutto questo sia dovuto al fatto che non mi sono fermata a guardare bene, non ci ho pensato, non l’ho vissuto; ero concentrata a manovrare macchine e ragionamenti, a controllare reazioni, a sminuzzare ritorni emotivi. Quando il cielo mi s’incupisce dentro in questo modo, perdo il senso della bellezza e  mi rimane un eccesso di malinconia che solo il sonno mi sa levare. Per farla breve, oggi avrei avuto bisogno di sole, solo di un po’ più di luce, tutto qui.

Quando da soli è bello e ragionando è meglio

Passo molte ore della giornata da sola; lo faccio da molti anni ormai. Queste ore le passo nei boschi, ma anche in compagnia dei miei libri, del mio cane, della musica e di sti cazzo di pensieri che, seppur potrebbe sembrare strano a qualcuno che ormai ha perso completamente fiducia nelle mie capacità di discernimento, mi portano a dei conseguenti ragionamenti.

Passando tanto tempo in solitaria, per lo più in compagnia di vegetali, insetti e animali non umani in genere, sono arrivata a formulare delle mie personalissime teorie generiche in merito alle solite tematiche da eremiti.

Sopratutto ad un certo punto mi è venuto spontaneo chiedermi perché  preferisco per lo più la solitudine dei boschi e dei luoghi più impervi delle montagne alla presenza dei miei consimili; intendiamoci, a me non è che danno fastidio le persone, tutt’altro! Mi piace starecon la gente, solo che da sola mi sa che il più delle volte riesco a trovare una dimensione che mi somiglia di più, ecco. E ne ho bisogno sempre più spesso… sarà che sto invecchiando, che vi debbo dire?!

Qualcuno mi biasima e mi ha biasimato per questo e me ne dispiaccio, ma non posso farci molto.

Quando per vari motivi “rientro in società” e vedo le facce di quella bella gente e vedo anche le facce di quell’altra brutta gente, ecco, mi vien da dirmi che pure la razza umana è buona cosa nella sua curiosa diversità e a volte è addirittura piacevole; ma in tutta onestà, se poi faccio un raffronto onesto con le sensazioni che posso trovare nella solitudine dei boschi, beh, a parer mio, il confronto non regge già più.

Voglio dire, son due dimensioni così diverse e distanti che forse risulta addirittura ridicolo fare un confronto e di mio non lo farei nemmeno, ma sapete com’è: io mica sono una scorza di larice, anche se dei larici ho grande rispetto e pure delle loro scorze, e in fin (fin,fin) dei conti io sono pure un essere umano ed è normale che, spinta da stimoli che provengono in parte dai miei consimili, cerco di capire in che termini io mi rapporto con loro.

Stando ad alcune domane che ogni tanto mi vengono rivolte e che, confesso, mi creano un certo imbarazzo, noto una certa curiosità per il fatto che dedico tanto tempo a starmene per i fatti miei.

E così, per amor di chiarezza e anche per quieto viviere, mi par giusto cercare di chiarire sto fatto. Innanzitutto ci tengo a dire che amare la solitudine non equivale a disprezzare il genere umano; se non altro perché non posso permettermelo, perché ne faccio parte e io, malgrado me stessa, un po’ mi voglio bene, così come voglio bene a un mucchio di altri esponenti della mia stessa specie.

Però c’è da dire che amando i boschi e prendendone esempio nei limiti immensi che mi sono propri, negli anni, un bel po’ di senso critico mi è nato nei confronti della specie a cui appartengo, ecco. Mentre non mi son mai pentita di un solo minuto trascorso nei boschi o in cima alle montagne. Nemmeno un minuto, mai!

Voglio dire che sforzandomi a leggere la Natura da vicino, ma proprio da vicinissimo, ho scoperto questa grande cosa che vorrei condividere qui: la Natura non fa errori. Gli errori sono solo umani. E’ così, non c’è niente da fare e sfido qualunque mente umana a confutare questa verità che ho scoperto nelle mie peregrinazioni da una ceppaia a una tronco e da un tronco a un sasso e così via.

In realtà queste mie affermazioni potrebbero esser in un certo qual modo confutate e di seguito spiegherò in che modo. Il fatto che la Natura non fa errori, infatti, dovrebbe rincuorarmi, perchè se è vero che l’essere umano è Natura, allora l’essere umano non è un errore.

Eppure il dubbio a tal proposito mi è nato, tanti anni fa ormai, quando vivevo e frequentavo la mia specie più di quanto faccio ora… e più ho conosciuto una certa parte del genere umano, più il dubbio si è rafforzato. E se così fosse, se così è, mi sa che c’è poco da stare allegri, perchè un’altra cosa che ho scoperto della Natura è questa: Lei mette ripiego da sè ad eventuali “errori” che matura, ed è per questo che in definitiva non fa mai errori.

Significa che se l’essere umano risulterà una “leggerezza”della Natura, allora sarà lei stessa a toglierci di mezzo e noi non potremmo farci proprio nulla.

Perchè anche quelli che qualche mente razionale ed eccelsa ha definito “errori” studiando la Natura con metodo, in realtà non sono errori, sono solo delle modifiche all’ordinario replicarsi di processi, sono delle mutazioni e anche le mutazioni hanno motivo di essere e anzi, sono ciò da cui nasce la diversità, il nuovo.

Insomma, ribadisco: la Natura non fa errori, semmai siamo noi che non siamo pronti a interpretare nel modo giusto i processi naturali e di conseguenza facciamo fatica anche a capire il ruolo che abbiamo noi stessi in tutto questo.

Probabilmente non abbiamo tutta l’ importanza che ci ostiniamo a conferire a noi stessi. Se riuscissimo a vedere davvero l’immesità del Tutto, di questo saremmo tutti ben consapevoli; pare però che da quest’orecchio abbiamo smesso di sentirci ormai da molto tempo.

Noi siamo umani (troppo, troppo…) e siamo pieni di limiti… cioè, non so voi, ma io di limiti ne ho un sacco e se permettete (e spero non la prendiate come una sorta di mania perpetrata all’autocentrismo… anche se potrebbe pure essere…) mi prendo come prototipo; la scelta in realtà è in parte obbligata, vista la scarsità di materiale umano alternativo a me medesima che insiste qui nel contesto che mi sono scelta.

Ora, se è così e se gli errori li facciamo solo noi che siamo umani, mi vien da dire, non è che magari, magari se osserviamo ben bene la Natura, se la studiamo a fondo, con metodo, con passione e dedizione, se ne prendiamo esempio, se la prendiamo come Maestra insomma, non è che riusciamo pure a salvarci da noi stessi, a capire finalmente in che direzione è meglio camminare, lasciando magari le direzioni malsane che ci siamo scelti fino ad oggi?

Può pure darsi che se anche ci “rimettiamo in riga” Lei decide di spazzarci via comunque, questo è da tener presente… ma perchè accelerare questo processo “facendola tanto incazzare”, mi chiedo?! Sta cosa l’avevano capita i nostri vecchi, l’avevano capita pure gli antichi e poi ad un certo punto ce la siamo dimenticata, quasi tutti e in massa.

Bum! Ad un certo punto quando abbiamo imparato a controllare alcuni fenomeni naturali tramite la scienza e la tecnica ci è esploso qualcosa nel cervello e ci siamo sentiti tronfi e potenti… anzi, onnipotenti! Abbiamo preso a sentirci dei super uomini e non abbiamo più smesso. Pessima idea, dimenticarsi della Grande Madre. Pessima, io credo.

E questo è forse l’errore più grande che abbiamo fatto e che continuiamo a fare, fra i tanti. Ammesso che essendo umani e quindi Natura, i nostri siano davvero errori e non semplici processi naturali che, probabilmente, ci porteranno all’autodistruzione… un po’ come in quei film stile Armageddon.

E’ anche un errore ingenuo, parecchio stupido, (da qui la mia scarsa stima per il genere a cui appartengo, lo confesso) perché dimenticarci della Natura, smettere di osservarla e smettere di imparare da Lei, significa dimenticarci di noi stessi, di ciò che siamo e di cui abbiamo realmente bisogno.

Significa dimenticarci che abbiamo bisogno di lei in ogni minimo attimo delle nostre microscopiche esistenze. Noi siamo Natura, anche se ci sentiamo ben altro e molto di più, troppo spesso. Sarà la tecnica che ci sta rincoglionendo, saranno le religioni di massa, non lo so.

Personalmente ho grande rispetto per chi usa scienza e tecnica per conoscere, per migliorarci, ma ho meno rispetto per chi le usa con scarsa umiltà e facendo più o meno consapevolmente danno a se stesso e agli altri.

A volte penso che il genere umano è ancora troppo poco evoluto per assumersi la responsabilità di se stesso; lo penso quando mi guardo attorno o quando mi capita di leggere un quotidiano o ascoltare un telegiornale, tanto per fare l’esempio più banale.

A parer mio, se la gente vuole guarire dalla stupidità dilagante che imperversa famelica nella nostra epoca, come primo gesto sensato e di priorità assoluta, dovrebbe buttare nei cassonetti i televisori che tiene in casa, riposare un po’ la mente e cominciare a farsi una domanda semplice; una domanda del tipo: ma che cazzo sto facendo della mia vita, del poco tempo che mi è concesso?!

Ecco, i boschi mi hanno insegnato a buttare il televisore nel cassonetto e a farmi domande di questo tipo; c’è da dire che da almeno trent’anni non ho mai smesso di cercare delle risposte, perchè ancora non è che io ne abbia trovate molte che mi abbiano, ad oggi, soddisfatto molto, ma perlomeno ci sto lavorando.

E comunque non ho più quella pessima sensazione che avevo in un remoto passato da divanista televisiva durante il quale ho perso parte dela mia esistenza rincoglionendomi davanti a un monitor dal quale, per la maggior parte del tempo, mi si propinava la merda più oscena.

Ho deciso ad un certo punto che potevo scegliere, ed ho scelto; preferisco osservare il mondo per quello che è, provando a filtrarlo attraverso dei ragionamenti che cerco di rendere il meno condizionati possibile (è un lavoraccio e non sempre mi riesce, ma ci provo!) e specialmente se nel mondo che osservo la bellezza che mi ritorna è immensa, e le presenze umane sono rare, ma di qualità, mi vien da dire che in fin dei conti ne è valsa la pena.

L’uomo verde d’alghe

Da: Fiabe italiane di Italo Calvino

Un Re fece fare le grida nelle piazze che a chi avesse riportato la sua figlia sparita gli avrebbe dato una fortuna. Ma la grida non aveva effetto perché nessuno sapeva dove poteva esser andata a finire questa ragazza: l’avevano rapita una notte e non c’era posto sulla terra che non avessero frugato per cercarla.

A un capitano di lungo corso venne l’idea che se non si trovava in terra si poteva trovare in mare, e armò una nave apposta per partire alla ricerca. Ma quando volle ingaggiare l’equipaggio, non trovava marinai: perché nessuno aveva voglia di partire per un viaggio pericoloso, che non si sapeva quando sarebbe finito.

Il capitano era sul molo e aspettava, e nessuno s’avvicinava alla sua nave, nessuno osava salire per il primo. Sul molo c’era anche Baciccin Tribordo che era conosciuto come un vagabondo e un uomo da bicchieri, e nessuno lo prendeva sulle navi. – Dì, ci vuoi venire tu, sulla mia nave? – gli fece il capitano.

– Io sì che voglio.

– Allora sali, – e Baciccin Tribordo salì per primo.

Così anche gli altri si fecero coraggio e salirono a bordo.

Sulla nave Baciccin Tribordo se ne stava sempre con le mani in tasca a rimpiangere le osterie, e tutti brontolavano contro di lui perchè il viaggio non si sapeva quando sarebbe finito, i viveri erano scarsi e dovevano tenere a bordo un fa-niente come lui. Il capitano decise di sbarazzarsene. – Vedi quell’isolotto? – gli disse, indicandogli uno scoglio isolato in mezzo al mare.

– Scendi nella scialuppa e va’ a esplorarlo. Noi incrociamo qui intorno.

Baciccin Tribordo scese nella scialuppa e la nave andò via a tutte vele e lo lasciò solo in mezzo al mare. Baccicin si avvicinò allo scoglio. Nello scoglio c’era una caverna e lui entrò. In fondo alla caverna c’era legata una bellissima ragazza, ed era la figlia del Re. – Come avete fatto a trovarmi? – disse a Baciccin Tribordo.

– Andavo a pesca di polpi, – disse Baciccin.

– E’ un polpo enorme che m’ha rapita e mi tiene prigioniera, – disse la figlia del Re. – Fuggite, prima che arrivi! Ma dovete sapere, che questo polpo per tre ore al giorno si trasforma in triglia, allora è facile pescarla, ma bisogna ammazzarla subito perché altrimenti si trasforma in gabbiano e vola via.

Baciccin Tribordo si nascose sullo scoglio, lui e la barca. Dal mare uscì il polpo, ed era enorme e con ogni branca poteva fare il giro dell’isola, e s’agitava con tutte le sue ventose perché aveva sentito che c’era un uomo sullo scoglio. Ma venne l’ora in cui doveva trasformarsi in pesce e tutt’ad un tratto diventò triglia e sparì in mare. Allora Baciccin Tribordo gettò le reti e ogni volta che le tirava c’eran dentro muggini, storioni, dentici e alla fine apparve, tutta sussultante, anche la triglia. Baccicin levò subito un remo per darle un colpo da ammazzarla, ma invece della triglia colpì il gabbiano che si era levato a volo dalla rete, e la triglia non c’era più. Il gabbiano non poteva volare perché il remo gli aveva rotto un’ala, allora si ritrasformò in polpo, ma aveva le branche tutte piene di ferite e buttava fuori un sangue nero. Baciccin gli fu sopra e lo finì a colpi di remo. La figlia del Re gli diede un anello con diamante in segno di perpetua gratitudine.

– Vieni, che ti porto da tuo padre, – disse lui, e la fece salire nella barca. Ma la barca era piccola ed erano in mezzo al mare. Remarono, remarono, e videro lontano un bastimento. Baccicin alzò in cima a un remo la veste della figlia del Re. Dalla nave li videro e li presero a bordo. Era la stessa nave da cui Baciccin era stato abbandonato. A vederlo tornare con la figlia del Re il capitano cominciò a dire: – O povero Baciccin Tribordo! E noi che ti credevamo perduto, t’abbiamo tanto cercato! E tu hai trovato la figlia del Re! Beviamo, festeggiamo la tua vittoria! – A Baciccin Tribordo non sembrava vero, tanto tempo era rimasto senza assaggiare un goccio di vino.

Erano già quasi in vista del porto da cui erano partiti. Il capitano fece bere Baciccin, e lui bevve, bevve fino a che non cascò giù ubriaco morto. Allora il capitano disse alla figlia del Re: – Non direte mica a vostro padre che chi v’ha liberato è quell’ubriacone! Dovete dirgli che vi ho liberato io, perché io sono il capitano della nave, e quello là è un mio uomo che ho comandato io di fare quel che ha fatto.

La figlia del Re non disse né sì né no. – So io quel che dirò, – rispondeva. E il capitano allora pensò di farla finita una volta per tutte con Baciccin Tribordo. Quella stessa notte lo presero, ubriaco com’era e lo buttarono in mare. All’alba il bastimento arrivò in vista del porto; fecero segnali con le bandiere che portavano la figlia de Re sana e salva, e sul molo c’era la banda che suonava e il Re con tutta la Corte.

Furono fissate le nozze della figlia del Re col capitano. Il giorno delle nozze nel porto i marinai vedono uscire dall’acqua un uomo coperto d’alghe verdi dalla testa ai piedi, con pesci e granchiolini che gli uscivano dalle tasche e dagli strappi del vestito. Era Baciccin Tribordo. Sale a riva, e tutto parato d’alghe che gli coprono la testa e il corpo e strascicano per terra, cammina per la città. Proprio in quel momento avanza il corteo nuziale, e si trova davanti l’uomo verde d’alghe. Il corteo si ferma. – Chi è costui? – Chiede il Re. – Arrestatelo! – S’avanzano le guardie, ma Baciccin Tribordo alzò una mano e il diamante dell’anello scintillò al sole.

– L’anello di mia figlia! – disse il Re.

– Sì, e questo è il mio salvatore, – disse la figlia, – è questo il mio sposo.

Baciccin Tribordo raccontò la sua storia; il capitano fu arrestato. Verde d’alghe com’era si mise vicino alla sposa vestita di bianco e fu unito a lei in matrimonio.

(Riviera ligure di ponente)

E’ questa una delle fiabe di Calvino che più mi hanno affascinato perchè in un certo senso hanno richiamato in me il ricordo di un poema che ho letto qualche tempo fa, ovvero La saga di Gilgamesh.

Forse le connessioni che mentalmente ho fatto in merito possono risultare un po’ fuori luogo, di primo acchito un po’ forzate, eppure è stata una reazione istintiva, la mia; come se fra le righe di questa fiaba vi fosse lo stesso “sapore”, un fascino analogo a quello che ho vissuto leggendo l’epopea di Gilgamesh.

Ma tutte le fiabe ed i miti hanno degli elementi che inevitabilmente li accomunano.

Mi diverto a trovare i nessi, forse perché è un modo come un altro per andare oltre al testo. Certo in apparenza non c’è nulla di più dissimile del protagonista nella fiaba riportata da Calvino ed il protagonista dell’ Epopea di Gilgamesh; l’uno è in buona sostanza un uomo che vive ai margini della società, un derelitto che si attacca alla bottiglia ad ogni occasione, mentre l’altro è un re, un essere in parte divino.

Però poi ci ho pensato e mi son detta che seppure in modo molto distante, entrambi sono connotati da degli elementi che li rendono “diversi” dal contesto umano in cui vivono. Mi è acaduto di pensare a Baciccin Tribordo come a un individuo in cerca di qualche cosa che possa cambiargli l’esistenza; lui infatti aspetta di potersi imbarcare su una nave, prendere il largo e avventurarsi in mare aperto.

Tuttavia la sua diversità, il suo vivere ai margini è l’elemento che non gli permette di realizzare quest’aspirazione, finchè un giorno la situazione si capovolge e proprio questa sua condizione di “marinaio sempre in attesa del viaggio” gli offre l’occasione che cerca; è lui il primo ad imbarcarsi per l’impresa impossibile propostagli dal capitano.

Baciccin dà l’esempio agli altri; ha il coraggio di affrontare i pericoli di un viaggio che non si saprà come e quando finirà ed è l’unico che lo fa con lo spirito dell’avventuriero che non si muove per qualche interesse particolare, ma solo perché ha la voglia di conoscere che cosa accadrà nel corso del viaggio. 

Ora,  a me pare che quello di Baciccin Tribordo è un po’ lo spirito che spinge tutti gli eroi dei poemi epici a muoversi, Ulisse compreso. Il viaggio in mare di Baciccin Tribordo ha un sapore forte di iniziazione, di prova di coraggio e seppure viene descritto come l’ubriacone di bordo, una volta lasciato solo sullo scoglio, lui dimostra di essere in grado di affrontare la situazione, di far fronte ai pericoli che gli si presentano.

Non viene abbandonato su un’isola, ma su uno scoglio; gli scogli nei racconti di navigazione, come ad esempio l’Odissea, rappresentano una vera e propria ossessione. Sono causa di timore e vengono spesso paragonati a mostri marini. Sono i nemici implacabili sulla via di ogni destino e psicologicamente possono rapresentare la chiusura della coscienza in un atteggiamento di ostilità, la stagnazione nella via del progresso spirituale; è una sorta di simbolo della “pietrificazione”, del mito della regressione.

Baciccin si avvicina allo scoglio e lo affronta e in esso trova una caverna. La caverna è anche il luogo di accoglienza di forme simbolico-rituali, quali l’iniziazione e la rinascita a un livello superiore di esistenza, è l’archetipo dell’utero femminile, ma anche l’antro dal quale emergono i mostri.

Anche Gilgamesh durante il suo viaggio alla ricerca dell’immortalità giunge al monte Masu e dopo che i due esseri metà scorpione e metà umani lo fecero passare, in virtù della sua natura in parte divina, attraversò le tenebre della montagna. Baciccin in fondo alla caverna trova la figlia del Re, mentre Gilgamesh trova il giardino degli dei ed in seguito Siduri, la donna della vigna.

Quest’ultima indicherà a Gilgamesh la via da seguire per arrivare all’isola felice di Dilmun, rendendogli noti i pericoli che dovrà affrontare, mentre la figlia del Re redarguisce Baciccin sui pericoli ai quali andrà incontro dovendo affrontare il grande polipo che l’ha rapita.

Quando Baciccin pesca la triglia si trova a dover fronteggiare il mostro mentre assume diverse sembianze e alla fine riesce a sconfiggerlo. la figlia del Re dona a Baciccin un anello, simbolo di un’unione libera ormai già avvenuta, ma anche, come avvenne per il Re Salomone, il simbolo della saggezza e del potere sugli altri esseri; nel caso di Baciccin, sul mostro che ha saputo sconfiggere.

Ma le prove per Baciccin non erano ancora finite: una volta risalito sulla nave riprende a bere e nuovamente viene gettato in mare su ordine del capitano. Ma proprio quando la fiaba pare volgere al fine con il solito matrimonio e la frase di rito “e vissero felici e contenti”, Baciccin riappare emergendo dal mare, coperto d’alghe e in possesso dell’anello che lo avrebbe fatto riconoscere come vero salvatore della figlia del Re.

E anche in questo caso ho ripensato a Gilgamesh che si immerge sul fondo del mare per prendere la pianta dell’Irrequietezza che gli avrebbe permesso di riavere la gioventù perduta. La pianta raccolta con tanta fatica gli verrà poi rubata da un serpente e Gilgamesh dovrà rassegnarsi alla consapevolezza di dover un giorno morire.

Entrambi riemergono dall’acqua portando con sè l’uno le alghe che gli ricoprono il corpo e l’altro la pianta cercata come fossero i simboli di una conoscenza ormai acquisita.

In entrambi i casi le esperienze fatte hanno fatto in modo che maturassero una consapevolezza tale da renderli pronti a vivere nel migliore dei modi e di conseguenza anche a morire con altrettanta serenità.                    

Per analizzare questa fiaba ho consultato: