Il dolore inevitabile

Non ho molte risposte, nemmeno alcune, il più delle volte. Ho dei dubbi e spesso delle dubbie convinzioni; non è molto, ma è quanto mi permette di vivere, evitando di dovermi accontentare di sopravvivere. E comunque sia preferisco le domande alle risposte; le domande lasciano spazio alla mente, alle possibilità, all’immaginazione.
E credo ci sia molto bisogno di immaginazione, oggi più che mai! Questa è una delle mie poche convinzioni. C’è chi ride, ad esempio, di una mia idea in merito al dolore inevitabile che tutti, nessuno escluso, ci troviamo prima o poi sulla strada. Nessuna vita è priva di dolore, nessuna. Può sembrare un’ovvietà, detta cosi; eppure la maggior parte degli esseri umani continua a sognare una vita priva di dolore.
Moltissimi pretendono, sperano e/o credono fermamente anche in una vita priva della morte. Qualcuno che non vuol avere troppi problemi filosofici, teologici e via dicendo nel qui e ora, promette una vita priva di dolore e libera dalla morte, se non in questa vita, in un’altra, più avanti, alla prossima area di servizio.
Ora, io l’ho già detto, non ho risposte, non ne ho. Però mi capita di guardarmi un po’attorno, ogni tanto, e l’esempio che non mi ha mai deluso quando comincio a farmi molte domande è sempre quello che trovo in Natura.
Io che non ne so nulla mi affido alla Maestra per eccellenza, insomma. In Natura esiste il dolore ed esiste la morte. Questa non è una convinzione; questa è una certezza. Se esistono forse servono a qualcosa, perché in Natura nulla è fine a se stesso, nulla. Questa invece è una convinzione corroborata dai fatti.
Ora, noi sappiamo che l’essere umano si distingue dal resto delle specie che esistono in Natura perché è un essere consapevole… o meglio, così dovrebbe essere. E nella nostra consapevolezza in quanto esseri umani, dovremmo riuscire ad avere ben chiara la situazione; intendo dire che noi sappiamo pensarci, quindi sappiamo anche collocarci mentalmente, oltre che fisicamente, nel contesto che ci ospita, giusto?
Se è così allora sappiamo leggere noi stessi in relazione alla natura che ci è propria, giusto? O perlomeno così dovrebbe essere, o così dovremmo tendere a fare, no? Se è così, allora noi ci rendiamo conto di ciò che più si confà a noi stessi, alla nostra natura di esseri umani, no?
E allora mi chiedo: se le dinamiche proprie della natura umana sono equiparabili alle dinamiche che possiamo osservare in Natura, in quanto anche noi siamo Natura e la Natura è il contesto che ci ospita, perché continuiamo a pretendere di “snaturarci” al punto tale da essere esonerati dal dolore e dalla morte?
Poniamo pure che esista un modo per vivere senza soffrire mai e senza morire mai; perché nessuno mi ha mai messa al corrente sul metodo concreto e reale che consente di pigiare lo start per raggiungere tale ambita condizione? Tutti lì a inventare teorie a costruire credi e dogmi e mondi lontani da quello terreno pur di sfuggire alla realtà delle cose!
Ma mi chiedo: ma questo mondo fa davvero così schifo da voler raggiungere tutti un mondo altro e diverso? E se fa a tutti schifo, perché fa schifo?
Non è che, magari, magari fa schifo a molti perché son quelli che in attesa di un aldilà migliore se ne fregano delle responsabilità che hanno nei confronti del mondo qui e adesso? Come dire che non muovono un dito per rendere le loro esistenze degne di essere vissute, perché tanto poi devono morire e se tutto va secondo i piani se ne vanno in paradiso… forse?
E magari, visto che il paradiso non è qui, tanto vale che le nostre innumerevoli stupidità ed egoismi continuino indisturbati a crearci l’inferno attorno, rendendo il dolore e la morte più forti e potenti di quel che la Natura inevitabilmente e giustamente continuerebbe a perpetrare creando e mantenendo equilibrio.
Esiste un dolore inevitabile e dovremmo imparare a conviverci, perché fa parte della nostra condizione, della nostra natura. Dovremmo imparare a conviverci serenamente, liberandoci dalla paura e smettendola di raccontarci balle più o meno rassicuranti.
Un tempo si conosceva la morte e non si rinnegava il dolore; la gente ci conviveva e lo faceva con estrema dignità. Fino a qualche generazione fa non si nascondeva il dolore nelle case di cura, negli ospizi e negli ospedali, delegandone la gestione agli “addetti ai lavori”.
Molti morivano in casa e lo facevano con una dignità e una serenità che, mi spiace dirlo, ma oggi in molti casi a me pare che abbiamo perso.
Se poi ti scappa di dire a qualcuno che imparare a convivere e ad affrontare il dolore è un modo per crescere, il minimo che quel qualcuno può rispondere è che hai tendenze masochiste. Ma io mi chiedo, a proposito delle solite domande, non è meglio abituarsi un po’ alla volta al dolore e alla morte affrontandoli mentre si vive, che morire di dolore quando la vita ce li proporrà sulla nostra strada?
Perché è inevitabile che questo accada, anche per quelli che sanno raccontarsi e raccontare balle meglio degli altri. Nessuno può godere di privilegi tali da tirarsene fuori, mi pare. Ok, ok toccatevi pure se volete; ne avete la facoltà.
A me non pare così tragica sta cosa da doverla rinnegare e nascondere ad oltranza. In Natura non accade mai: In Natura si nasce soffrendo e si muore vivendo. Così dovrebbe essere. E lo dico perché spesso noi esseri umani moriamo prima di essere morti, perché abbiamo troppa paura di soffrire e quindi di vivere. E questo è il dolore che ci creiamo da soli, quello che potremmo benissimo evitarci e che invece coltiviamo con tenacia e determinazione nella terra fertile delle nostre paure. Questo è un dolore innaturale, gratuito, inutile e tuttavia tipicamente umano. Manchiamo dell’ immaginazione necessaria a renderci sereni, abbiamo bisogno di riti, dogmi, rassicurazioni, mi sa. Penso spesso che fra tutte le specie, in tal senso, saremo pure la più evoluta, ma pure la più sfigata.

Il coraggio del cambiamento

Il cambiamento richiede coraggio ed io non sono forse particolarmente coraggiosa… non lo sono.

Diciamo che ho affrontato e affronto la vita come posso, per quanto mi è permesso da ciò che sono.

Però cerco e affronto il cambiamento proprio per questo; perché se un limite esiste e ci rende inquieti, quello va superato, io penso.

E se va superato si deve mettersi nelle condizioni per poterlo superare.

In poche parole è necessario mettersi in gioco, nonostante le insicurezze, le paure, i dubbi e anche se si va incontro a ciò che ancora non si sa, non si conosce.

E allora io cambio, spesso; lo faccio tutte le volte che giungo al punto in cui sento che nel mio quotidiano c’è qualche cosa di eccessivamente ripetitivo, routinario… in poche parole quando sento che ho bisogno d’altro, che quello che sono diventata e che vivo non mi basta più.

Penso sia una condizione comune, questa.

Ci sono però degli ambiti nei quali non è sufficiente avere il coraggio di buttarsi; sono quelli che oltre al coraggio o non coraggio che ci è proprio, o che in qualche modo riusciamo a trovare o a non trovare, richiede anche il coraggio di qualcun altro.

Ecco, noi possiamo avere il coraggio che serve a noi stessi per darci un senso, per crescere un po’ di più, per metterci alla prova, io penso… o meglio, lo possiamo cercare e forse trovare.

Ma come possiamo trovare il coraggio che serve agli altri? E se anche conoscessimo un modo, come potremmo fare in modo che il nostro coraggio basti anche per loro? Se c’è un modo, confesso, io non lo conosco. Ma vorrei tanto, conoscerlo.

Gratitudine

Le perle di questi giorni sono le erbe nuove che qui solo ora cominciano a fiorire. Ne bevo i colori con la luce del mattino, che trovo sia la migliore, quella che ha la rugiada ancora aggrappata agli steli, immersa nelle corolle, fresca, perché il sole non l’ha ancora chiamata a farsi nuvole.
Niente che si replichi mai; la meraviglia nasce dal rinnovarsi di cicli perenni eppure sempre diversi, si celebra nel mutevole, nella incontenibile spinta a farsi altro, a nascere ancora e poi ancora e ad essere gloriosa magnificenza a partire dall’invisibile, dal microscopico mutare fino ad arrivare all’esplosione silenziosa e infinita del diverso.
In questi tempi imbevuti di paura, dove imperversa da ogni dove il trattamento implacabile e subdolo del terrore, trovo che le certezze che vengono dal susseguirsi inesorabile delle fasi naturali siano colme di una rassicurante quiete e di un potente antidoto alle ansie diffuse.
Se l’uomo imparasse davvero ad osservare la natura, non saprebbe che cos’è la noia e di certo si farebbe spaventare molto meno dalle cose della vita, perché conoscere annulla le paure.
Penso anche e spesso, ascoltando parlare le persone, e a volte ascoltando me stessa, che se l’esistenza lascia ferite e cicatrici dolorose nell’animo umano, qualche cosa ci spinge a cercare ciò che più sa farci riemergere; è una condizione che sperimentiamo tutti, questa.
Ho scoperto fortunatamente presto, che la natura sa e può lenire, consolare e infine, guarire. Può bastare un frullo d’ali, a volte, l’incontro improvviso con gli occhi sbarrati e curiosi di un cucciolo, il rumore dei passi cauti di un capriolo che si avvicina sull’erba fresca, il canto degli uccelli che piano si risvegliano all’alba;tutto questo può bastare anche nei momenti peggiori, per distrarre il cuore e la mente da pensieri cupi e pesanti e portarci alla bellezza.
Tutto questo e molto di ciò che, visti i limiti che mi sono propri, non so dire come vorrei, può bastare a rendere ogni attimo di ogni giornata degno di essere vissuto.
Da qui il senso di gratitudine che mi accompagna nei miei passi e nelle mie soste in solitaria quassù.

Ho saputo da voci straniere…

Ho saputo che da qualche parte, in un tempo remoto, la nebbia planava ogni sera e avvolgeva le cose; quieta, lenta, morbida come l’abbraccio dei petali chiusi.

Mi hanno detto che avveniva all’ora del crepuscolo, quando gli uccelli piano smettono il canto della sera ed i silenzi prendono sotto braccio le ombre, accompagnandosi verso i sogni della notte.

Ho saputo, poi, che con la nebbia, alle case con le imposte chiuse, si avvicinavano gli spiriti dei boschi e sussurravano il canto dei venti freschi e leggeri che scendevano dalle montagne, per poi salire in alto lungo i pendii dei pascoli fra refoli di veli candidi e spuma di pulviscolo d’acqua.

Mi hanno detto che quando questo accadeva i bambini sentivano quei canti e si stringevano l’un l’altro, mentre qualcuno accanto al fuoco, raccontava loro di terre lontane e di maghi e folletti che popolavano il mondo.

Mi hanno detto che in quel tempo la pelle delle donne profumava di aria fresca quando rientravano nelle loro case dai campi alla sera, e le mani degli uomini erano felici della terra e delle resine dei boschi.

Ho saputo queste cose da delle voci che venivano dal silenzio e che mi parvero straniere quando mi vennero a trovare, e ho pensato di lasciarle dette qui, queste cose, prima che svaniscano ancora e di nuovo, come fanno le nebbie quando si allungano al mattino sugli specchi d’acqua, per poi dileguarsi sui bordi, lungo le vallecole in ombra.