Le erbe selvatiche mi hanno salvato la vita

Non sto esagerando; a me le erbe selvatiche hanno salvato la vita, perché funziona così, a volte: tu ti appassioni a qualcosa proprio quando stai per toccare il fondo; poi quella passione ti permette di darti una piccola spinta e piano, piano ti vedi risalire, per riprendere lentamente in mano le cose essenziali che negli anni avevi disimparato a focalizzare; sono le stesse cose, gli stessi dettagli spesso imperscrutabili che alla fin, fine fanno davvero la differenza. E ti salvi, per ricominciare a vivere.

Penso che molta gente oggi si lascia morire perché non ha più passioni, o non le ha mai avute, o non le ha mai conosciute perché era distratta da altro. Ebbene, le erbe selvatiche possono salvare la vita a qualcuno e io ne ho le prove; e non sono efficaci in questo solo come una passione che fa rinsavire un’animo spento, ma anche come un concreto aiuto per la salute del corpo, oltre che dello spirito. Le erbe, le piante in generale sono un mistero, un mondo magico che mi ha sempre lasciata senza fiato, perché si rivela ogni volta strabiliante e incredibile!

Mi cadde una foglia d’acero in mano tanto tempo fa; ero un’adolescente spaventata e incerta. Mi trovavo in un prato a lavorare il fieno. Ero concentrata sul lavoro, immersa nei miei dubbi, nelle mie paure. La vidi scendere a una decina di centimetri dai miei occhi e l’afferrai per il picciolo con due dita; era strano, perché avevo le mani occupate dagli attrezzi da lavoro, eppure riuscii ad afferrarla. Un gesto istintivo. Accadde così, come in una scena a rallentatore, come se fosse stato un gesto scontato e invece la precisione e la sincronicità con le quali avvenne il tutto, mi resi conto che furono qualcosa di assolutamente improbabile. No non era scontato che si potesse verificare una cosa simile, mi dissi. Eppure avvenne così. Osservai quella foglia a lungo, guardai in alto e mi chiesi da dove venisse, visto che non mi trovavo ai piedi di un acero; ero nel bel mezzo di un grande prato.

Era verde, fresca, con il picciolo rossiccio. Perfetta. Combaciava fino al millimetro con il palmo della mia mano sinistra. Era estate, non avrebbero dovuto cadere le foglie fresche in quella stagione e non c’era vento. Mi chiesi il perché accadde. Io mi chiedo sempre il perché; sempre. Ma non capii, non ero pronta per capire, ancora. Ma la cosa mi emozionò e non mi dimenticai mai più di quella foglia. Non la conservai, perché non sapevo dove metterla e dovevo lavorare; mia madre non era molto felice dei miei momenti di “imbambolamento” come li chiamavano in famiglia, soprattutto se c’era da lavorare.

In seguito decisi di dare un significato a quella foglia; decisi che significava che io dovevo fare un lavoro che avesse a che fare con le piante, con i boschi. Decisi che avrei fatto un lavoro nei boschi, e fu così per venti lunghi anni, ma questa è un’altra storia.

Oggi ho smesso di fare quel lavoro, perché mi stava spegnendo e non ero più una persona libera. Oggi invece frequento i boschi quotidianamente da persona libera e mi viene il dubbio che quella foglia volesse dirmi solo questo; “non allontanarti dai boschi”. Non era necessario lavorarci; bastava frequentarli come faccio adesso e mi sarei sentita felice. Infatti se c’è un luogo dove sto sempre bene è proprio nei boschi, o in cima a una montagna. Sempre, anche nei momenti peggiori, io lì riesco a stare bene. L’ho scoperto dopo anni, che quella foglia voleva dirmi solo questo. A volte le cose più ovvie e semplici sono le ultime che vediamo. Le erbe selvatiche ci insegnano questo; a vedere esattamente quello di cui abbiamo bisogno e di volta, in volta capire che strade prendere. E’ così che ci salvano la vita.

Un mese fa ero sdraiata in un prato dove crescevano i tarassachi e le orchidee selvatiche e con la coda dell’occhio osservavo un cardo mariano rimasto in piedi, secco e sgraziato, reduce da un inverno che non lo aveva prostrato a terra. Il cardo mariano, se non lo sapete, è una di quelle piante che davvero può salvarci la vita. E questa storia, ve la racconto sicuramente, ma un’altra volta.

Il cuculo ha deposto l’uovo… e mi chiedo perché nessuno degli altri uccelli si lamenta

Il titolo del famoso romanzo di Ken Kesey, nonché dell’omonimo film con Jack Nicholson “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, è sbagliato. Il cuculo non ha mai fatto il nido. E di conseguenza nessuno può essere volato sul nido del cuculo. Che Kensey lo abbia fatto apposta? Non lo so.

Ma sta di fatto che accadono queste cose in natura; accade che un uccello deponga il suo uovo in un nido di altri uccelli. E così non ha nemmeno fatto la fatica di costruirsi un nido, ma soprattutto non farà la fatica di crescere la prole. Il cuculo depone un solo uovo, di solito ben più grosso di quelli che già stanno nel nido. Il cuculo qui da me è sempre ben presente. Lo sento cantare e fare i suoi versi un po’ ridicoli nelle fasi primaverili di corteggiamento. Lo sento quando è in esplorazione per decidere quale sarà la casa del suo uovo abusivo. In primavera qui mi sveglio fra il canto delle cince, dei codirossi e del cuculo; ci sono anche le ghiandaie e il picchio verde. Quest’ultimo si fa sentire spesso con la sua risata sguaiata. Meno melodiosa del canto del cuculo, ma a me piace. Mi sta un sacco simpatico il picchio verde, a differenza del cuculo, che mi piace, sì, ma con delle riserve, ecco. E’ che volenti o nolenti siamo tutti pieni di preconcetti, noi umani. A noi piace il picchio verde, perché è un gran lavoratore, e perché non parasitizza i nidi altrui deponendoci uova abusive.

Secondo il metro di valutazione umano, specie alla quale mio malgrado appartengo (lo sottolineo, perché sia mai che me lo dimentico), tutti questi esseri sarebbero definiti “brava gente”…tranne il cuculo. Perché a nostro modo di vedere, il cuculo è un parassita, parliamoci chiaro! Uno di passaggio che si approfitta del buon cuore e dell’ingenuità delle altre specie, deponendo le sue uova nei loro nidi e lasciando che loro provvedano ad alimentare suo figlio, finché questo non sfratterà i fratelli più piccoli e deboli, buttandoli fuori dal nido, per approvvigionarsi di tutto il cibo che i genitori ignari, continuano a portargli con un lavoro di via vai integerrimo e senza sosta. Un po’ come accade per quelli che abbandonano i figli che poi vengono presi in carico dall’assistenza sociale, con la differenza che qui le famiglie d’accoglienza sono sempre molto efficienti e premurose e portano il figlio abbandonato sempre e comunque alla maggiore età e senza fargli mancare nulla. Una cosa così, ma molto più metodica, studiata e ben congeniata, la tattica di riproduzione del cuculo. Il cuculo è un professionista dell’abbandono della prole.

In natura c’è sempre una spiegazione a tutto. Niente accade per caso. Io mi sono chiesta per anni quale fosse la spiegazione per un comportamento di questo tipo e no, non sono ancora riuscita a capire, non sono ancora riuscita a darmela, una spiegazione plausibile. Voglio dire, un uccello come il cuculo non avrebbe problemi di sopravvivenza se anche adottasse i metodi riproduttivi che adottano tutti gli altri uccelli, facendosi un nido e deponendovi le sue uova… eppure, niente: lui fa sta cosa ignobile. E sta cosa comporta la morte di altri uccelli, perché i fratellastri non hanno scampo; vengono inevitabilmente buttati fuori dal nido. Ed è terribile sto fatto che i genitori non ci arrivino, non capiscano e continuino a nutrire un figlio parassita, che non è roba loro.

Insomma, gente; a me sto fatto mi rode. Ed è per questo che non so capirne il senso, perché non so pensarci a mente lucida. Non so vedere la cosa libera da preconcetti. Per me, da qualsiasi lato guardo la situazione, mi pare una roba che non ha scusanti; una cosa inconcepibile, ecco!! Eppure, se la natura ha deciso che sta cosa deve accadere così, un motivo lo avrà avuto, no? E allora mi capita di pensare alla Morte; proprio così. Quante volte di fronte alla Morte abbiamo provato quel senso di impotenza e di smarrimento, dovuto spesso proprio al sentore che la Morte è ingiusta e inclemente? Ecco, più o meno, ci si potrebbe fare su un discorso analogo. Il punto è che in natura accadono cose che noi umani non ci sappiamo spiegare, perché siamo ancora troppo piccoli. Non ci arriviamo perché non ne sappiamo abbastanza della vita, per capire anche la Morte. Se non sappiamo capire le ragioni del cuculo, figuriamoci se sappiamo capire le ragione di madama Morte, mi viene da dire.

Io sono sicura che il giorno che arrivo a capire perché il cuculo si riproduce in questo modo sciagurato, capirò qualcosa di molto importante della vita su questa Terra; e magari sarà il giorno in cui una Signora avanti con l’età e con i capelli candidi raccolti in una crocchia voluminosa, il viso pallido con un sottile naso dritto e gli occhi grigi, e con addosso un bell’abito vittoriano di raso e pizzo nero, verrà a prendermi per portarmi sottobraccio in uno splendido giardino all’inglese. Ci saranno ruscelli d’acqua dolce e molte rose e alberi e cespugli di biancospino fra i quali cinguettano i codirossi, le cinice, i merli ed i passeri che ci avranno già fatto il nido; ci sarà pure il cuculo, che svolazza di qua e di là un po’ inquieto, muovendosi veloce fra i rami dei tigli e delle querce secolari, perché ha l’impellenza di deporre un uovo in qualche nido altrui. E con Lei, con la Signora sottobraccio passeggerò lentamente e sarà la prima volta forse che saprò sorridergli, al cuculo… perché avrò capito finalmente perché lo fa e che senso ha.

Ma non so se potrò dirvi come va a finire.

Quando a un certo punto, ti accorgi di non sentire più l’odore delle ortiche

Mi ci tuffai dentro, nelle ortiche; avevo otto o nove anni. Quello che mi ricordo fu l’odore acre dell’erba che sapevo distinguere benissimo e che in quell’occasione avvertii troppo tardi; il bruciore arrivò dopo, un bel po’ dopo. Lungo le braccia, sul collo e sulla faccia gli aghetti irritanti cominciarono a farsi sentire; arrivarono le piccole bollicine bianche e le chiazze rosse. Il dolore a tratti davvero profondo e bruciante durò parecchio. Le ortiche secche sono molto più “cattive” delle ortiche fresche, questo posso dirlo con cognizione di causa! E’ che quando si faceva il fieno si tirava su un po’ tutto, perché le vacche si sa, non ne vanno pazze, ma mangiano anche le ortiche.

Quando si andava al pascolo stavo ore ad osservare come le vacche lambiscono con le loro lunghe lingue ruvide gli steli dell’erba; le ortiche alle grandi bocche delle vacche non fanno nulla! Le ruminavano e si sentiva il tipico odore d’ortica. Le ortiche crescono nelle zone vicine ai vecchi ruderi di montagna, vicino alle vecchie stalle abbandonate, o nelle fosse del letame che nessuno usa più. Vogliono suoli grassi e azotati. E le vacche lo sanno, perché le lasciavano per ultime e ci facevano il giro; se erano troppo mature, in effetti le disdegnavano. Mangiavano solo le ortiche fresche, quelle più giovani e poi facevano pure buon latte! Erano cattive solo per la mia pelle, le ortiche, e non mancai di rendermene conto più e più volte nella mia carriera di pastora; quella volta in modo particolare. Avevo questa strana abitudine di buttarmi sui mucchi di fieno fresco e fu così che le ortiche mi accolsero in un abbraccio decisamente scostante, bruciante e pungente.

Io non piangevo mai; esattamente come adesso. A volte un po’, dentro. Soprattutto se il male me lo facevo da sola, perché se mia madre se ne accorgeva, era facile che rincarava la dose con una sberla o un calcio in culo! “Così almeno piangi per un motivo serio!”. Era la frase che diceva in questi casi. Altro che “Telefono azzurro” o “bacino sulla bua”!! In seguito dovetti mio malgrado pure esserle grata per questo trattamento rude, perché mi resi conto che mi temprò non poco. Niente piagnistei, niente autocommiserazione!! Sbagli? Ti rialzi e vai avanti! Questo era il succo “dell’insegnamento”! Vabbeh, probabilmente ci si poteva arrivare anche con altri metodi, ma lei non aveva tempo da perdere!! Aveva un sacco di cose a cui pensare, un mucchio di lavoro pesante da sbrigare e non poteva certo fermarsi per risolvere un ulteriore problema che mi ero creata da sola! Toccava concentrarsi sulle contingenze, non sulle quisquiglie da bambini.

Crescendo lessi da qualche parte che potevo schiarirmi i capelli lavandoli con la camomilla ed asciugandoli al sole; lessi anche che i miei capelli potevano diventare più belli risciacquandoli con l’acqua dove ci venivano cotte le radici delle ortiche. In età adolescenziale, quando ebbi l’impellente esigenza di andare alla ricerca di un modo per rendermi fisicamente più accettabile (soprattutto a me stessa), visti i complessi inevitabili dovuti all’età, mi misi a fare i decotti di radici di ortiche e li usavo per sciacquarmi i capelli tre volte alla settimana. Funzionava. E anche la camomilla funzionava e nei mesi estivi divenni molto più bionda; l’unico neo di queste nuove abitudini nelle mie pratiche di cure estetiche, consisteva nel fatto che pareva che solo io mi rendessi conto del cambiamento. Era già qualcosa, in effetti, ma alla fine dopo un po’ di anni la mia esigenza di auto accettazione sciamò e desistetti. Era un rito che richiedeva tempo e dedizione.

La fase complicata era la preparazione del decotto; la raccolta no, quella mi piaceva. Ero diventata bravissima ad estirpare le ortiche senza farmi male; una tecnica tutta legata a un gioco di polso. E andare per ortiche era un modo per stare da sola nei boschi. Una scusa come un’altra. Nessuno della mia famiglia era molto dedito a prassi con finalità estetiche; non ce n’era il tempo né tantomeno l’interesse e infatti, quando facevo queste cose, non mancavano di dirmi che stavo perdendo tempo! Molte delle cose che facevo erano considerate delle perdite di tempo; compreso leggere o disegnare; figuriamoci andare in cerca di radici d’ortiche!! In effetti, anche questi miei comportamenti mi resi conto nel tempo, probabilmente contribuirono a farmi etichettare come “quella strana”.

Poco male! Ho dei bellissimi ricordi di quei tempi, dei pomeriggi passati a raccogliere erbe e a dedicarmi a trattarle, per poi usarle per me; era un’attenzione che mi dedicavo con affetto. Era un modo per sentire che mi volevo bene, nonostante tutto. Serviva per ricordarmi che mi meritavo l’attenzione del mondo e della natura. Non c’erano molte altre occasioni per ricordarmelo . L’odore di ortica, poi non l’ho più sentito per molti anni. Quest’anno sono andata a cercarle. E le ho trovate e mi sono un po’ spaventata perché sulle prime mi sono resa conto che l’odore non lo sentivo più. Ci sono volute due settimane per riabituare l’olfatto a riconoscerla.

Adesso è tutto a posto; sento l’odore dell’ortica, del sambuco e anche di altre erbe. Non ancora di tutte, ma ci sto lavorando. E’ come imparare di nuovo un linguaggio che avevo dimenticato. Se ci si allontana da un paese straniero e ci torni dopo anni, poi per riprendere dimestichezza con la lingua ci vuole un po’ di tempo. Ebbene, io andavo per boschi, ma non avevo il tempo di fermarmi e riprendermi i profumi dell’erba. Adesso vado per boschi ed il profumo dell’erba è la prima sensazione che mi accoglie, ancor prima del colore delle foglie, dei fiori, della terra! Anche il profumo delle ortiche, con tutti i ricordi che si porta appresso.

Per chi odia la lentezza

Non amo chi corre! Non ho mai sopportato chi fa le cose di fretta e personalmente vado con la dovuta calma in tutto ciò che faccio, perché trovo che il mondo è pieno zeppo di cose da guardare, da capire e di cui rendersi conto. Mi hanno sempre detto che la mia lentezza assomiglia a una forma latente di pigrizia; non è vero! La mia lentezza è paragonabile a uno studio costante, assiduo e attento di tutto ciò che mi accade attorno. Io non sono lenta, io osservo. Ma questo è poco produttivo e non è accettato dal sistema e da chi reputa la produttività direttamente proporzionale alla quantità di lavoro prodotto, omettendo di valutarne la qualità. In famiglia i benpensanti mi hanno biasimata per anni perché non provo il minimo senso di colpa a causa della mia lentezza. E se è per questo mi hanno biasimata per anni anche perché non ho mai provato il minimo senso di colpa per niente in particolare. Ci hanno provato, per anni e in gruppo, ma a me proprio sto fatto del senso di colpa non mi andava di assimilarlo, perché capivo che era uno strumento di manipolazione. A me non è mai piaciuto farmi insegnare come devo sentirmi e come devo pensare. Quindi niente senso di colpa perché mi prendo il giusto tempo per vivere, spiacente. Eppure lo sanno tutti che correre in continuazione ha qualche cosa di malato! lo sanno, perché poi si fanno di ansiolitici, di tranquillanti e di altra porcheria rincoglionente. Si fanno di pillole perché non ce la fanno a correre in continuazione! E non ce la fanno perché correre in continuazione non è a misura d’uomo! E’ come chiedere a un leone di mangiare l’insalata, o come chiedere a una macchina che va a benzina di bruciare gasolio! Ci puoi mettere tutti gli additivi che vuoi, ma prima o poi si ferma. Io di gente scoppiata ne ho vista tanta, non so voi… e prima di scoppiare non è che facevano una gran bella vita; Tutt’altro! Se volessi essere cinica fino in fondo, potrei dire che chi deve sentirsi in colpa perché non rispetta se stesso e la vita che gli appartiene, preservandola in buona salute con dei ritmi umani, non sono io, ma chi corre fino a scoppiare!!!