Quando a un certo punto, ti accorgi di non sentire più l’odore delle ortiche

Mi ci tuffai dentro, nelle ortiche; avevo otto o nove anni. Quello che mi ricordo fu l’odore acre dell’erba che sapevo distinguere benissimo e che in quell’occasione avvertii troppo tardi; il bruciore arrivò dopo, un bel po’ dopo. Lungo le braccia, sul collo e sulla faccia gli aghetti irritanti cominciarono a farsi sentire; arrivarono le piccole bollicine bianche e le chiazze rosse. Il dolore a tratti davvero profondo e bruciante durò parecchio. Le ortiche secche sono molto più “cattive” delle ortiche fresche, questo posso dirlo con cognizione di causa! E’ che quando si faceva il fieno si tirava su un po’ tutto, perché le vacche si sa, non ne vanno pazze, ma mangiano anche le ortiche.

Quando si andava al pascolo stavo ore ad osservare come le vacche lambiscono con le loro lunghe lingue ruvide gli steli dell’erba; le ortiche alle grandi bocche delle vacche non fanno nulla! Le ruminavano e si sentiva il tipico odore d’ortica. Le ortiche crescono nelle zone vicine ai vecchi ruderi di montagna, vicino alle vecchie stalle abbandonate, o nelle fosse del letame che nessuno usa più. Vogliono suoli grassi e azotati. E le vacche lo sanno, perché le lasciavano per ultime e ci facevano il giro; se erano troppo mature, in effetti le disdegnavano. Mangiavano solo le ortiche fresche, quelle più giovani e poi facevano pure buon latte! Erano cattive solo per la mia pelle, le ortiche, e non mancai di rendermene conto più e più volte nella mia carriera di pastora; quella volta in modo particolare. Avevo questa strana abitudine di buttarmi sui mucchi di fieno fresco e fu così che le ortiche mi accolsero in un abbraccio decisamente scostante, bruciante e pungente.

Io non piangevo mai; esattamente come adesso. A volte un po’, dentro. Soprattutto se il male me lo facevo da sola, perché se mia madre se ne accorgeva, era facile che rincarava la dose con una sberla o un calcio in culo! “Così almeno piangi per un motivo serio!”. Era la frase che diceva in questi casi. Altro che “Telefono azzurro” o “bacino sulla bua”!! In seguito dovetti mio malgrado pure esserle grata per questo trattamento rude, perché mi resi conto che mi temprò non poco. Niente piagnistei, niente autocommiserazione!! Sbagli? Ti rialzi e vai avanti! Questo era il succo “dell’insegnamento”! Vabbeh, probabilmente ci si poteva arrivare anche con altri metodi, ma lei non aveva tempo da perdere!! Aveva un sacco di cose a cui pensare, un mucchio di lavoro pesante da sbrigare e non poteva certo fermarsi per risolvere un ulteriore problema che mi ero creata da sola! Toccava concentrarsi sulle contingenze, non sulle quisquiglie da bambini.

Crescendo lessi da qualche parte che potevo schiarirmi i capelli lavandoli con la camomilla ed asciugandoli al sole; lessi anche che i miei capelli potevano diventare più belli risciacquandoli con l’acqua dove ci venivano cotte le radici delle ortiche. In età adolescenziale, quando ebbi l’impellente esigenza di andare alla ricerca di un modo per rendermi fisicamente più accettabile (soprattutto a me stessa), visti i complessi inevitabili dovuti all’età, mi misi a fare i decotti di radici di ortiche e li usavo per sciacquarmi i capelli tre volte alla settimana. Funzionava. E anche la camomilla funzionava e nei mesi estivi divenni molto più bionda; l’unico neo di queste nuove abitudini nelle mie pratiche di cure estetiche, consisteva nel fatto che pareva che solo io mi rendessi conto del cambiamento. Era già qualcosa, in effetti, ma alla fine dopo un po’ di anni la mia esigenza di auto accettazione sciamò e desistetti. Era un rito che richiedeva tempo e dedizione.

La fase complicata era la preparazione del decotto; la raccolta no, quella mi piaceva. Ero diventata bravissima ad estirpare le ortiche senza farmi male; una tecnica tutta legata a un gioco di polso. E andare per ortiche era un modo per stare da sola nei boschi. Una scusa come un’altra. Nessuno della mia famiglia era molto dedito a prassi con finalità estetiche; non ce n’era il tempo né tantomeno l’interesse e infatti, quando facevo queste cose, non mancavano di dirmi che stavo perdendo tempo! Molte delle cose che facevo erano considerate delle perdite di tempo; compreso leggere o disegnare; figuriamoci andare in cerca di radici d’ortiche!! In effetti, anche questi miei comportamenti mi resi conto nel tempo, probabilmente contribuirono a farmi etichettare come “quella strana”.

Poco male! Ho dei bellissimi ricordi di quei tempi, dei pomeriggi passati a raccogliere erbe e a dedicarmi a trattarle, per poi usarle per me; era un’attenzione che mi dedicavo con affetto. Era un modo per sentire che mi volevo bene, nonostante tutto. Serviva per ricordarmi che mi meritavo l’attenzione del mondo e della natura. Non c’erano molte altre occasioni per ricordarmelo . L’odore di ortica, poi non l’ho più sentito per molti anni. Quest’anno sono andata a cercarle. E le ho trovate e mi sono un po’ spaventata perché sulle prime mi sono resa conto che l’odore non lo sentivo più. Ci sono volute due settimane per riabituare l’olfatto a riconoscerla.

Adesso è tutto a posto; sento l’odore dell’ortica, del sambuco e anche di altre erbe. Non ancora di tutte, ma ci sto lavorando. E’ come imparare di nuovo un linguaggio che avevo dimenticato. Se ci si allontana da un paese straniero e ci torni dopo anni, poi per riprendere dimestichezza con la lingua ci vuole un po’ di tempo. Ebbene, io andavo per boschi, ma non avevo il tempo di fermarmi e riprendermi i profumi dell’erba. Adesso vado per boschi ed il profumo dell’erba è la prima sensazione che mi accoglie, ancor prima del colore delle foglie, dei fiori, della terra! Anche il profumo delle ortiche, con tutti i ricordi che si porta appresso.

Memorie – Sui bronzini e sui campanacci

Dormivo in una stanza rivestita di vecchie assi che profumava di fieno e una piccola finestra guardava sulla Valle. La sera le vacche ruminavano nella stalla al piano di sotto e le sentivo respirare; avvertivo il rumore delle mandibole che si muovevano e che schiacciavano l’erba fra i grandi molari piatti. Ogni sera il suono lento e monotono dei batacchi sul metallo dei campanacci e dei bronzini, dava il ritmo ai riti che preludevano al sonno. Mi mettevo a letto e ascoltavo, fissando le travi del vecchio soffitto. Erano suoni appena accennati che avevano una loro gentilezza. Poi, nel dormiveglia, affiorava lontano nella mente il concerto di tutti i bronzini e campanacci della mandria, proprio come lo sentivo quando le vacche affamate salivano il versante il mattino, e correvano un po’, ma quegli stessi suoni lì nel buio della sera, mi raggiungevano appena, come se fossero portati da lontano con una debole folata di vento. Non ascoltavo con le orecchie, perché era una musica che avevo dentro; un sottofondo costante che mi accompagnava fino a quando il sonno e il silenzio della sera spegnevano i pensieri.

Non era una vera e propria malga, ma più una tipica baita in sassi e legno, quella dove passavo in solitaria tutte le estati, da giugno a settembre; al piano terra la vecchia cucina con il focolare centrale era stata sacrificata per ampliare la stalla, e il fienile al piano di sopra era stato trasformato in un luogo confortevole, seppur piccolo, dove poter dormire e prepararsi un pasto caldo. Rimanevo settimane lassù da sola, senza vedere nessuno, tranne qualche fungaiolo della domenica, che osservavo da lontano, nascondendomi un po’ per timidezza, un po’ perché non avevo voglia di parlare. Per non perdere l’abitudine, però, parlavo con le mie vacche. Loro mi rispondevano a modo loro e ci capivamo benissimo. Ognuna delle mie vacche aveva il suo particolare modo di stare al mondo e da quella più tenace e testarda, a quella più mite e dolce, mi legava a loro un sentimento fatto di rispetto e ammirazione; erano magnifiche le mie vacche!

Balin era una vacca di razza Rendena; la capo mandria. Era rotonda e di taglia piccola. Aveva le corna corte e ricurve, spezzate sulle punte dalle varie lotte con le altre vacche; un ciuffetto biondo rossiccio sulla fronte sormontava un muso scuro, largo e accorciato che le conferiva un po’ l’aria di vacca scaltra che sa il fatto suo. Conosceva tutti i sentieri e le scorciatoie per arrivare ai pascoli, sapeva dove cresceva l’erba migliore e quanto tempo ci voleva per arrivarci. Stava in capo al gruppo negli spostamenti e la mandria la seguiva con cieca fiducia. Aveva il campanaccio più grande, più sonoro e potente, quello che risaltava fra gli altri e si riusciva a sentire a notevole distanza, anche quando la mandria si allontanava troppo.

Hilla invece era una bruna alpina; la comprò mio padre da un allevatore dell’Alto Adige. Le Brune erano preferite da alcuni allevatori della zona, fra i quali anche mio padre, perché facevano più latte, ma molti altri contadini del posto preferivano le vacche di razza Rendena, perché era quella la razza tradizionale autoctona. La sintesi di quest’opposizione all’introduzione delle Brune Alpine in Valle, la espresse un anziano allevatore, il quale si spinse a dichiarare pubblicamente e con forza che: “…le Brune saranno anche buone vacche, ma son svizzere e rimangono delle extracomunitarie!”.

Hilla era dunque una delle tante extracomunitarie altoatesine della nostra mandria e di certo una vacca particolare. Aveva un buon carattere, come la maggior parte delle brune; aveva anche delle lunghissime e grosse corna ricurve all’indietro verso le scapole, che incutevano un po’ di timore. Nessuna delle nostre vacche veniva privata delle corna! Facevano parte della bellezza delle bestie, le corna! Una vacca senza corna è un po’ come una persona alla quale vengono tagliate le orecchie… una cosa che non si può vedere! Oggi alle vacche bruciano le corna quando sono piccole, perché nelle stabulazoni fisse dove vengono rinchiuse come macchine da produzione intensiva, le vacche con le corna potrebbero ferirsi. Una vacca senza corna è meno aggressiva, ma anche molto più triste, a mio parere. Quando Hilla alzava la testa per muggire, le punte delle sue corna arrivavano quasi a toccarle la schiena, mentre lei emetteva un suono stranissimo, dalla tonalità alta e acuta; una specie di fischio sgraziato inframmezzato da un muggito rauco e acuto. Una rarità in fatto di timbro vocale per una vacca, diciamo. Ottima produttrice di latte, Hilla aveva, però una mammella posteriore ricurva verso l’esterno, più corta delle altre, tozza ed estremamente difficile da mungere; probabilmente il frutto di un’incidente di percorso, o di una lotta con qualche altra vacca, chissà… Questa sua particolarità fisica comportava un tempo supplementare da dedicare alla mungitura. Mentre mi ci dedicavo, le cantavo delle canzoni. Secondo la mia visione delle cose, le canzoni un po’ jazz e un po’ pop-rock che improvvisavo per lei, dovevano servire a rendere Hilla collaborativa e fare in modo che rilasciasse più velocemente il latte; tuttavia che la strategia canora servisse nel concreto allo scopo, onestamente non ho mai potuto provarlo.

Fra le giovani c’era Dugo, una delle figlie di Balin; anche lei una Rendena dal manto scuro, più piccola della media. Aveva una testa rotonda e anche in età adulta mantenne il muso accorciato tipico dei cuccioli. Solitamente le manze assumono un carattere meno scapestrato dopo aver partorito il primo vitello, ma questo non valeva per Dugo, che rimase adolescente fino alla fine della sua carriera di vacca. Aveva ereditato delle doti da leader dalla madre, ma le sfruttava in modo riprovevole fomentando rivolte sovversive fra le compagne; quando la mandria si trovava ormai a due ore di cammino dalla stalla, parecchio in alto e a ridosso dei pascoli in quota, Dugo faceva dietro front con noncuranza e prima che io me ne rendessi conto, si dirigeva baldanzosa al trotto verso valle, tirandosi dietro un gruppetto ribelle. Il tutto degenerava in inseguimenti disperati e a scavezzacollo lungo sentieri e boschi in pendenza. In un’occasione il gruppetto capitanato dall’anarchica, non disdegnò di frequentare orti e campi dove le infingarde, non credendo alla fortuna che era loro capitata, fecero man bassa di cavoli, insalata e ortaggi vari nelle proprietà dei paesani, che, neanche a dirlo, furibondi si diressero verso casa mia, per denunciare il delitto compiuto a mia madre. Mia madre, ovviamente, fece bene il suo lavoro di giudice e mi condannò a una punizione corporale che ricordo ancora benissimo. Quell’anno, ricordo di esser stata più che felice di non dover rientrare in famiglia fino a settembre. Io di mio, arrivai sul campo a strage ormai compiuta; il danno fu esoso e irrecuperabile e i rapporti con i proprietari dei fondi invasi dall’orda barbara, irrimediabilmente compromessi.

Quando Dugo decideva che poteva starsene tranquilla, le mie giornate le passavo osservando le cose della natura; oppure scrivevo con una penna biro dei brevi versi sulle cortecce delle betulle e poi, a distanza di tempo, ritornavo per controllare se la pioggia le aveva cancellate. La pioggia fu sempre clemente e cancellò pietosa e con metodo le mie dissertazioni poetiche da bambina quasi adolescente; quindi mi dedicavo a occupazioni più proficue ripulendo le sorgenti dalle erbacce, disponendo degli abbeveratoi lungo i ruscelli, o creando delle pozze con dei massi nelle zone paludose, in modo che gli spostamenti della mandria per la ricerca dell’acqua fossero ridotti al minimo.

Durante le ore più calde le vacche si sdraiavano paciose sull’erba e prendevano a ruminare; io le osservavo da una zona sopraelevata sedendomi sotto un albero. Erano quelli i momenti migliori; i campanacci quasi fermi, il ronzio degli insetti nell’aria, l’odore della terra e dell’erba fresca calpestata dagli zoccoli, e la consapevolezza che il tempo poteva anche fermarsi per lunghe e meravigliose ore di quiete.

Quando il sole si abbassava sulla Valle, si riprendeva la via del ritorno. Le radunavo e le avviavo lungo il sentiero e loro si mettevano in colonna; Balin davanti, seguita da Dugo e alcune delle sue compagne sovversive; dietro le brune più lente, come Zerva, che spesso si fermavano a spiluccare l’erba attorno ai sassi lungo il sentiero.

Zerva era anche lei un’extracomunitaria altoatesina ed era fra le vacche più maestose della mandria; molto alta, perfettamente proporzionata e con magnifiche corna lunghe e simmetriche. Questa vacca aveva uno sguardo dolce ma fiero e un’ indole estremamente docile; tuttavia la sua caratteristica principale agli occhi dei miei genitori, era che produceva più latte di tutte le altre. Venerata da mia madre per questo motivo e fonte di compiacimento per mio padre che l’aveva scelta fra molte extracomunitarie, Zerva fece storia e fu sempre indicata come esempio a tutte le vacche della mandria. Era in sostanza l’esatto opposto di Dugo, che però non se ne fece mai un cruccio, a quanto ne so io.

Producendo tanto latte, Zerva mangiava in continuazione, anche durante il rientro, ed io per accelerare un po’ il passo mi portavo davanti alla mandria e la chiamavo. Attiravo le vacche con il sale grosso, mentre intonavo una specie di litania che, a parer mio e modestamente, era molto meno gradevole delle canzoni pop-rock che cantavo per Hilla durante la mungitura. Tuttavia la tradizione voleva così ed io mi limitavo a ripetere il richiamo che fin da piccolissima avevo sentito usare dai pastori della mia famiglia.

Ora, il sale grosso per una vacca è come la Nutella per noi umani, con la differenza che a noi la Nutella non fa tanto bene, mentre il sale grosso per le vacche è fonte di minerali e ne vanno ghiotte. Per questo motivo, quando una vacca ha il sentore che il pastore ha in mano un po’ di sale grosso, pare che s’innamori di lui di colpo e gli corre incontro finché non raggiunge l’obiettivo, ovvero il pugno di sale.

Zerva non faceva eccezione ma Balin, neanche a dirlo, arrivava sempre per prima e allungava il collo aprendo la grande bocca, mentre io v’infilavo tutta la mano e vi lasciavo cadere il sale, pulendomi poi il palmo sulla lingua ruvida e sui grandi denti piatti. Balin masticava beata guardandomi con enormi occhi scuri pieni di gratitudine; intanto arrivava anche Zerva e trafelata, si prendeva la sua dose di sale. Durante quei rientri mi godevo il miracolo infinito dei tramonti.

Avvenne poi che verso la fine degli anni novanta del secolo scorso, la mia famiglia e molte altre della Valle, scegliessero un altro tipo di attività lavorativa, perché la zootecnia aveva smesso di essere redditizia e implicava sacrifici che non erano ripagati equamente.

In breve tempo tutte le mie vacche furono macellate o vendute; pascoli e baite di montagna furono abbandonati ed io non ho più sentito ripetersi nell’animo e nel cuore, quelle sensazioni di leggerezza e soddisfazione che provavo quando stavo lassù. Rimane il ricordo per una parte di esistenza che mi ha temprato e cresciuta, colmando di bellezza la mia infanzia. Ancora adesso la sera, nel silenzio della mia stanza, ogni tanto da dentro avverto il risuonare dei bronzini e dei campanacci; mi pare di riconoscerli uno a uno e un sorriso triste e colmo di gratitudine mi sale dal cuore.

Le foto di questo articolo sono mie 🙂

La pastora – terza parte

Una volta avviata la mandria, si saliva. Le vacche dalle mi parti, una volta uscite dalla stalla, dovevano quasi sempre camminare in salita; questa era la regola insindacabile data dalla conformazione del territorio. A me questa regola non è che piacesse molto e nemmeno alle nostre vacche, notavo. Tuttavia i pascoli si trovavano “sempre un po’ più su” di dove era ubicata la stalla. Il camminare in salita alla mattina e in discesa alla sera era pane quotidiano, per me e anche per le vacche. Per arrivare ai prati, appena usciti dal paese, si dovevano attraversare il più delle volte i boschi; quella era la parte più facile del lavoro, perché le vacche in un bosco di conifere non erano come le capre, che si spostano ovunque se non spinte con insistenza. Le vacche non ci pensavano nemmeno a cambiare direzione e ad uscire dalla mulattiera, se non altro perché camminando su un terreno reso acido e privo di vegetazione dagli aghi degli abeti, gli stimoli per distrarsi dai pascoli d’erba che loro sapevano trovarsi più a monte, per una vacca affamata erano pressoché inesistenti. Il rientro poteva risultare più impegnativo, perché le vacche sazie sono più svogliate e meno propense a rientrare per farsi mettere la catena al collo, ma verso sera sentivano lo stimolo a farsi mungere e questo aiutava. Il compito di spingere la mandria, sia all’andata, sia al ritorno era mio e c’era in tale attività qualche cosa che mi piaceva poco; piuttosto che spingere la mandria, avrei preferito precederla. Tuttavia precedere la mandria era compito del più anziano in grado e nel caso specifico se ne occupava mia sorella, perché per mere questioni di età, il capo incontestabile era lei. Successivamente ebbi modo di capire che questa regola è universalmente riconosciuta in una società tradizionalista, seppure spesso è controproducente per il bene comune. Ma non divaghiamo. C’è da dire che spingere la mandria è un lavoro che ha un che di noioso; un po’ perché ti piacerebbe sempre sapere dov’è arrivata Balin lì davanti, e un po’ perché devi seguire un ritmo imposto, a volte troppo veloce e a volte decisamente troppo lento. Questo fatto che per forza di cose ero costretta ad assecondare una camminata non mia, mi portava ad annoiarmi parecchio e spesso attraversando i boschi, a differenza delle vacche, io mi distraevo. Ora, in un bosco i motivi di distrazione possono essere milioni, forse anche miliardi, perché a parte l’anatomia precisa della parte posteriore di una vacca che segue un’altra vacca, che a sua volta segue un’altra vacca, nonché le valutazioni più o meno attente dei prodotti delle attività fisiologiche che una mandria spinta in salita inevitabilmente produce, all’epoca mi pareva che non ci fosse molto altro che potesse rientrare nelle valutazioni attente del quadro poco complesso di questa parte del lavoro. Tranne la necessità di camminare per non rimanere indietro. Ecco, quest’ultima parte spesso mi sfuggiva e capitava sovente che quando la mandria giungeva al pascolo, io mi trovassi un po’ indietro, a volte parecchio indietro, spesso e forse inconsapevolmente spersa fra gli abeti e intenta in attività che a me sembravano di estremo interesse e di rilevante importanza, ma che a mia madre e soprattutto a mia sorella, non piacevano affatto perché, mi ricordo benissimo, si ostinavano a definirle più o meno come “bighellonaggio ozioso”. Crebbi con un lieve senso di colpa dovuto a queste incresciose incomprensioni, ma sopravvissi. In seguito, quando mia sorella cominciò a lavorare fuori casa, dovetti occuparmi da sola delle vacche ed il problema su chi doveva precedere la mandria non si poneva più; potevo gestirmi la cosa più o meno liberamente e di conseguenza anche i sensi di colpa svanirono. A volte, al rientro, precedevo la mandria facendo la parte di “quella che potrebbe darmi il sale”, altre volte, quando le vacche non volevano proprio saperne di lasciare il pascolo, le spingevo usando un bastone come mero strumento di minaccia. Loro un po’ ci credevano al mio bastone e un po’ no, perché mi conoscevano bene e quando non ci credevano per nulla arrivavo ad appoggiarlo sulle natiche di qualcuna, ma senza farle male; allora rinsavivano all’improvviso e la convinzione prendeva il posto dell’ ostentata incredulità mentre la marcia incerta si faceva decisamente più spedita. Detestavo chi usava il bastone con veemenza e odiavo chi lo usava con violenza su un animale attaccato alla catena. Da bambina ho assistito a scene di questo tipo e l’orrore e la rabbia ed il senso di importanza che mi procurarono queste esperienze covano ancora dentro di me, da qualche parte. Ero inerme e troppo piccola e non potevo farci niente, ma mi ripromisi che appena sarei diventata grande avrei punito chiunque si fosse comportato in quel modo con una vacca o con un animale qualsiasi! In seguito ebbi modo di mantenere la promessa, a mio modo. Per me il bastone doveva essere bello, intagliato, leggero e resistente, utile ad agevolare il cammino e quindi parecchio lungo e soprattutto era uno strumento di contorno nel lavoro, seppure conferiva una certa autorevolezza agli occhi della mandria. In seguito, nel tempo, noi come quasi tutte le altre famiglie vendemmo un po’ alla volta molte delle nostre vacche. Mio padre aveva trovato un buon lavoro in città e faceva il contadino nel tempo libero; nel periodo in cui seguivo la mandria da sola avevamo dalle dieci alle otto vacche, non di più, poi sempre meno e più avanti anche il periodo in cui si facevano pascolare nei prati si ridusse, preferendo tenerle ferme in stalla per occuparsi in prevalenza della coltivazione di campi con piccoli frutti, del taglio del fieno e dell’accumulo della scorta di foraggio per l’inverno. Il prezzo del latte che si spuntava vendendolo al consorzio non valeva la candela e tutti i contadini della mia zona, uno dopo l’altro, furono costretti a vendere il bestiame e a ripiegare su un lavoro in fabbrica fuori paese, o come manovali o altro, lasciando così la loro montagna a sè stessa, divenendo dei pendolari e in molti casi e dopo qualche anno, preferendo lasciare la Valle definitivamente per stabilirsi in città. Io ho assistito e fatto parte di questo esodo e ne ho sofferto, un po’ come tutti quelli che come me sono nati e cresciuti sulle montagne e hanno dovuto lasciarle. Ci fu chi tentò di resistere più a lungo, allevando in tempi più recenti le sue vacche Rendene contro ogni logica di guadagno e di profitto, ma a lungo andare anche gli irriducibili furono costretti ad arrendersi all’evidenza; una piccola azienda posta in zone difficili non poteva competere con le produzioni industriali dei grandi stalloni di fondovalle, specialmente se la realizzazione e la gestione di questi ultimi veniva finanziata dall’ente pubblico, mentre ai piccoli agricoltori zootecnici di montagna che non guadagnavano a sufficienza per mantenere le loro famiglie, non veniva dato un aiuto sufficiente e concreto. La fatica puntellata dalla tenacia e sopportata dai montanari pur di rimanere aggrappati ai posti dove erano nati, venne sostituita gradualmente dalla prospettiva di un’esistenza più comoda e remunerativa da condursi altrove. Fu una scelta sofferta, ma obbligata. Una vita di stenti priva di ritorno economico non aveva più motivo di essere, visto che la città offriva l’alternativa. Dilagò il senso di rinuncia da parte delle vecchie generazioni e l’impellente esigenza di una vita più sicura e comoda da parte dei figli. Credo che nello scambio si sia perso molto in termini di esperienza umana, di conoscenze, di rapporto con il territorio, ma forse la mia è l’ultima generazione che sa rendersene ancora conto, perché è stata quella che ha visto e vissuto il passaggio da uno stile di vita all’altro. Le conseguenze più nefaste sono l’abbandono delle zone un tempo abitate, la mancata manutenzione delle stesse, specie nelle aree più esposte e ripide ed i conseguenti problemi in termini di stabilità idrogeologica che si stanno verificando con sempre maggior frequenza. Tutto questo si ripercuote sulla sicurezza delle aree di fondovalle, esposte a rischi di cedimenti dei versanti, frane e piene dei torrenti e dei grandi fiumi. All’epoca nessuno chiuse la propria azienda e la propria piccola stalla a cuor leggero, nessuno, nemmeno la mia famiglia, ma è così che andò e forse non c’è molto altro da aggiungere, se non che la mia carriera di pastora fu inesorabilmente frenata dagli eventi, trasformandosi in ricordo nostalgico e ormai in una sempre più vecchia storia da raccontare.

La pastora – seconda parte

Il momento in cui le vacche venivano liberate dalle catene e venivano spinte lungo il sentiero appena uscite dalla stalla, mi creava sempre un po’ di ansia, perché c’era il rischio che quelle si mettessero a scorrazzare a destra e a manca, andando a calpestare l’erba dei prati confinanti. Erano momenti di una certa drammaticità, dati anche dall’improvviso rumore assordante prodotto dai bronzini e dai campanacci appesi al collo delle vacche, ma sembrava che di questa cosa me ne rendessi conto solo io.
I prati confinanti di proprietà altrui erano sacri; non si doveva farci entrare le vacche, assolutamente! Pena il rischio di interminabili dissidi e rimostranze, ritenute dai miei genitori più che giustificate, da parte dei vicini. E in un posto dove i rapporti con il vicinato sono vitali per il quieto vivere e spesso anche per la sopravvivenza, queste erano cose da evitarsi con la massima cura, perché l’erba calpestata è difficile da falciare, per non parlare dell’erba imbrattata di sterco.
Le parole d’ordine erano: rispetto dei confini, sempre! E tacitamente le altre parole d’ordine erano: rispetto delle convenzioni e delle tradizioni, sempre!! I principi fulcro erano quindi: rispetto, decoro e onestà. Fine.
Ora, da dove vengo io, le proprietà sono così parcellizzate che il rischio che una o più vacche sconfinassero nelle proprietà altrui durante gli spostamenti della mandria, era sempre altissimo e quando succedeva si alzavano urla e si udivano improperi irripetibili e tutti si mettevano a correre per risolvere il problema, perché si sa che le vacche non hanno la minima idea di che cosa sia una particella catastale e a tratti si comportano come le pecore; se una esce dal gruppo, è facile che anche le altre le vadano dietro, specie se la ribelle si dirige dove c’è erba fresca.
A volte si creano dei veri gruppetti di vacche dissidenti che cercano di farla in barba ai pastori mettendo in atto vere e proprie strategie e astuzie di gruppo pur di arrivare in zone succulente poste oltre confine; l’abilità del pastore sta nell’essere abbastanza convincente e risoluto da far capire alle vacche anarchiche che non c’è storia: le regole valgono per tutte!
Questi gruppetti sono costituiti solitamente da giovani manze capeggiate da una vacca che ha già partorito; a me stavano molto simpatiche le manze, perché erano quella via di mezzo fra un cucciolo e un adulto che mi faceva tenerezza, ma creavano sempre un po’ di problemi, quindi non dovevo darlo troppo a vedere. Anche fra le vacche gli adolescenti andavano frenati e controllati, in nome del quieto vivere della mandria tutta.
Un tempo tutti i sentieri erano delimitati dalle staccionate in legno. Le staccionate erano solide e fitte, costruite con dei pali di maggiociondolo infissi nel terreno e delle aste di larice lunghe diversi metri e inchiodate sui pali, incastrate l’una nell’altra in senso orizzontale. Il larice ed il maggiociondolo venivano scelti per le staccionate perché sono i legni più resistenti e duraturi. Un palo di maggiociondolo resiste per decenni, seppure infisso nel terreno, e la resina del larice protegge la cellulosa dalle intemperie. Un tempo il paesaggio delle mie montagne era costellato ovunque dalla presenza di queste recinzioni; ovunque vi fosse un confine di proprietà e una mulattiera o un sentiero vi era una staccionata.
Poi, nel tempo, si è persa la consuetudine di fare manutenzione alle staccionate; un po’ perché il numero dei capi di bestiame, a seguito dell’esodo dei contadini di montagna verso le fabbriche di fondovalle, era sempre più esiguo e un po’ perché la graduale meccanizzazione dello sfalcio dei prati richiedeva una certa libertà di movimento per i mezzi. E allora questo caratteristico elemento dei paesaggi montani venne pian, piano a scomparire. Fu uno dei primi segnali del cambiamento.
E fu così che per delimitare il passaggio delle vacche e del bestiame in genere, nei punti dove ormai le vecchie staccionate avevano ceduto, si ripiegava su del filo di ferro o su delle fettucce plastificate orribili a vedersi, sostenute da ganci in plastica altrettanto brutti, ma tuttavia funzionali; sono queste le tipiche recinzioni amovibili che vengono usate oggigiorno da tutti i pastori.
Una volta avviata la mandria c’era chi doveva precederla chiamandola e chi doveva seguirla, spingendola. Ora, può sembrare strano, ma le vacche se tu le chiami ti seguono e non è solo una questione affettiva, non funziona esattamente come per i cani; le vacche ti seguono perché tu hai il sale nella sacca, o perché fingi di averlo.
In fin dei conti, come accade spesso anche nella vita non bovina, seppure può risultare un po’ cinico dirlo, la fedeltà e l’obbedienza sono spesso dettate da una base opportunista e interessata. Le vacche non fanno eccezione. Loro ti identificano come “quella che potrebbe darmi il sale” e più le chiami e più abbassano la testa per accelerare il passo ed arrivare per prime all’obiettivo, ovvero la manciata di sale; in tal senso è anche una questione di competizione, se vogliamo.
Il richiamo delle vacche da parte del pastore che precede la mandria nel mio dialetto filo tedesco ha tutta una sua filosofia e consta di regole di sonorizzazione abbastanza precise.
La peculiarità di tale richiamo varia da famiglia di allevatori a famiglia di allevatori, ma la regola essenziale è sempre la stessa: le vocali vanno tenute a lungo e a piena voce come in un canto che, a seconda delle doti canore del pastore, può risultare più o meno stonato.
Ogni tanto, perché il richiamo risulti più convincente e meno impersonale per le vacche, si pronuncia il nome di questa o di quell’altra vacca*, in modo tale che sentendosi chiamare per nome, quelle pensino: “Oh caspita! Sta chiamando proprio me! Vuoi vedere che mi riserva un po’ di sale?!!”
Potrebbe sembrare una cosa priva di buon senso e di ogni logica razionale, eppure i risultati di attente osservazioni sul campo dimostrano senza ombra di dubbio che le vacche riconoscono il richiamo del proprio nome, e seppure non ho mezzi scientifici per comprovare le mie affermazioni, confido nella fiducia che spero mi si vorrà accordare in qualità di pastora di consolidata esperienza, seppur non più praticante.
Il richiamo delle vacche fa più o meno così: “Géééééàààààdòòòòò géééééààààààà….. Géééééééééààààààà Balin* dòòòòòòòòòòò géééééééééààààààààààààààààààààààà… Gea zoltz dòòòòòòòòòò géééééééàààààààà….”
Tradotto significa: Viiiiiiieeeeeeeeeeniiiiiiiiiiii quiiiiiiiiiiiiiiiiii vieeeeeeeeeeeeeniiiiiiiiiiii, vieeeeeeeeniiiiiii Balin, quiiiiiiii vieeeeniiiiiiiiiiiiiiiii. VIeniiiiiiiiiiiiiiiii c’è il sale, vieniiiiiiiiiiii…. e così via.
Se le vacche son pigre, come spesso si verifica quando alla sera son sazie e un po’ stanche, il richiamo va tenuto fino alla stalla; il che richiede un notevole dispendio di energie in termini di usura di corde vocali, polmoni e diaframma. Tuttavia per un pastore che ha trascorso tutto il giorno in solitaria e in silenzio fra le montagne, il richiamo della mandria, a mio parere, può risultare anche un piacevole sfogo e un collaudo delle proprie immutate capacità vocali.
Diversi sono i richiami per le capre; questi hanno un suono più secco e breve, forse un po’ per conformarsi al carattere più spigoloso, indipendente, dispettoso e recalcitrante di questi animali rispetto al carattere più bonario e relativamente mansueto delle vacche. Tranne che per le vocali finali che, anche in questo caso, si tengono spesso un po’ più a lungo, le capre si chiamano più o meno in questo modo: Lèkkkka lèkkkkka tziààààààà!!! Lèkkka lèkkka lèkkka tziààààà. Tziàààà tziàààààhhh.
Non c’è traduzione.
Le capre sono animali incredibilmente strafottenti: se hai il sale e le chiami ti seguono; se credono che tu abbia il sale e le chiami, ti seguono; se si accorgono che tu fingi di avere il sale e non ce l’hai, tu le chiami, ma loro ti ignorano. Con la vacca puoi giocare un po’ più d’astuzia, perché è di indole più fiduciosa, ma non si può tirare troppo la corda; gli animali come le persone, dopo un po’ che danno fiducia senza ottenere risultato, si ribellano o perdono interesse.
Anche per il richiamo delle capre esistono diverse varianti da pastore a pastore, ma in qualsiasi caso è fondamentale non farsi prendere dall’ilarità mentre si effettua il richiamo, perché altrimenti il gregge smette di prenderti sul serio e come pastora hai finito la carriera.
La vacca che precede la mandria è solitamente la più vecchia o comunque la più scaltra del gruppo, neanche a dirlo. Le si mette il campanaccio più buono, ovvero quello che si fa sentire a maggiore distanza. Come capo mandria abbiamo avuto per lungo tempo una vacca di razza Rendena, di quelle tutte nere, di taglia medio piccola, tenaci, rustiche, cocciute e ottime produttrici di latte e vitelli sani; la nostra rendena aveva le corna ritorte in avanti e si chiamava Balin, perché ricordava un po’ la forma sferica di un pallettone da doppietta e fu la capostipite di diverse generazioni successive di rendene.
Balin era la più vecchia della mandria ed era una vacca furbissima. Aveva una memoria che nemmeno gli elefanti; lei si ricordava tutti i sentieri e tutti i percorsi più comodi per arrivare ai pascoli. Le altre vacche nemmeno si mettevano a discutere su chi di loro doveva guidare la mandria e tutte sapevano che quando Balin si muoveva, loro dovevano muoversi e seguirla, punto.
A parer mio, molti manager che gestiscono gli interessi ed i beni comuni di noi poveri mortali avrebbero molto da imparare da una vacca come Balin; lei era una leader indiscussa perché nel concreto sapeva portare le altre dove la situazione vitale era ottimale, sia dal punto di vista del pascolo sicuro, sia dal punto di vista dell’abbondanza e della qualità del foraggio nei diversi periodi dell’anno.
Se non ci fossero stati tutti quei limiti dati dai confini di proprietà imposti dalla logica umana, a Balin si sarebbe potuto benissimo affidare tutta la mandria alla mattina, stando certi che lei alla sera l’avrebbe riportata alla stalla in orario per la mungitura e che tutte le vacche sarebbero rientrate sazie, riposate e pasciute.
Purtroppo, nonostante le sue indiscutibili doti di leader incontestata, Balin non si faceva scrupolo a sconfinare nei prati altrui, specie se quelli dovevano ancora esser falciati e tantomeno si poneva il problema degli orti o dei campi coltivati a cavoli che, anzi, per lei erano il vero obiettivo inconfessabile e sempre presente nelle sue strategie di movimento quando ci si trovava alle quote più basse e vicino ai centri abitati.
Quindi la leader andava tenuta d’occhio; questo faceva parte del mio lavoro ed è un po’ quello che noi tutti in qualità di cittadini dovremmo continuare a fare anche in contesti diversi da quello zootecnico.